Si avvia alla
conclusione la mostra di
Tobia Ravà (Padova, 1959; vive a Venezia)
Vele
d’infinito, inserita
in Negba, primo Festival di Cultura Ebraica che si è tenuto in Puglia con un
calendario denso di eventi artistici e culturali e connotato come un “metodo”
per avvicinare e avvicinarsi a un popolo troppo spesso oggetto del pregiudizio.
Ricucendo le fila
di una storia antica, si è cercato di ricomporre il puzzle della permanenza
degli ebrei in alcuni dei centri della Puglia, come a Otranto e Lecce, o come a
Trani, dove ancora oggi esistono nutrite comunità.
Sullo sfondo del
festival, l’intervento di Tobia Ravà si distingue non solo per la sobrietà con
cui interagisce col linguaggio dell’arte, ma anche per la capacità di rendere intelligibili
dogmi e saperi della cultura ebraica. Pur provenendo da una famiglia di origine
giudaica, Ravà ha ricevuto un’educazione laica e si è avvicinato alla Torah
affascinato in particolar modo dallo studio ermeneutico e semiologico dei testi
ebraici.
La mistica della
kabalah e la
ghematriah, che è l’arte di trovare delle
corrispondenze numeriche alle lettere dell’alfabeto ebraico, sono il collante
attraverso il quale l’artista veneto riconduce il linguaggio visivo dell’opera
lungo un percorso iniziatico, che sublima una percezione meramente retinica
dell’arte per affermarne il potere eversivo.
Così come per la
kabalah esistono diversi livelli di significanza della scrittura, allo stesso
modo Ravà intende l’opera come leggibile su più piani (
Pardes), per cui esiste
un’interpretazione letterale, una allegorica, fino all’ultima che è il
Sod, cioè la dimensione segreta, a
cui egli ne aggiunge anche una quinta, quella “iconografica”.
I suoi dipinti
presentano sempre un impianto figurativo chiaro, comprensibile a qualsiasi tipo
di fruitore, che si trova davanti a immagini dalla facile lettura nonostante
siano intessuti con numeri e lettere ebraiche. I boschi (Ravà rappresenta
quelli piantumati
dall’uomo, in cui gli alberi sono posti a uguale distanza l’uno dall’altro),
i paesaggi o gli scorci architettonici, in cui gioca un ruolo fondamentale la
luce – che ha lo stesso valore ghematrico dell’infinito -, propongono una
visione della natura e del mondo tali da indurre comunque a una riflessione.
Riferendosi spesso
alla ben nota sequenza di Fibonacci, dal cui valore di progressione numerica
discende la sezione aurea rappresentata graficamente dalla spirale, Ravà rafforza
il principio di una natura panteistica (Spinoza) che vede proprio nella kabalah
il raccordo tra il mondo e Dio. Per questo nelle sue opere ricorrono spesso i
valori ghematrici dei quattro elementi fondamentali (aria, fuoco, terra e
acqua), poiché ha rintracciato nella somma di quei valori (658) una perfetta
corrispondenza con il valore numerico di
athanor, il crogiuolo dell’alchimista.
Se ne deduce,
dunque, che il cammino verso quell’
aura apprensio, cioè la “via della conoscenza”,
tanto cara proprio agli alchimisti, passi inevitabilmente attraverso l’uomo
che, in quanto “prodotto” della compenetrazione dei quattro elementi, si
configura come emanazione del macrocosmo.