L’ombra della verità, la condizione latente di ogni autoevidenza, è il luogo dei confini, dei margini, della differenza tra la luce del visibile e la visione interrotta, mediata, negata. Nell’arte, come nell’esperienza sensibile, v’è però la possibilità di una percezione alterante, di un impulso a cercare e descrivere l’altro, il resto.
Ragionando sull’idea di sconfinamento, in una terra costiera che priva l’orizzonte di ogni limite, emerge il paesaggio di Artetica, esposizione dislocata nello spazio urbano del comune di Porto Cesareo, animato dalle opere di Meris Angioletti, Francesco Arena, Beatrice Catanzaro, Andrea Sala ed Enzo Umbaca.
Costruire spazio nello spazio, inventare l’esistenza nei perimetri dell’abitare: il presupposto di ogni intervento produce una promessa di trasgressione, a volte compiuta, a volte simulata, comunque, in ogni caso, allarmante. Si calpesta il territorio fiutandone le voci, i colori, le forme dell’architettura e la geografia rurale, mentre matura, lucida ed eloquente, una prospettiva inedita che rivela la presenza di una vena oscura al di sotto dell’incanto paesaggistico. Gli artisti sollevano la polvere della conformità sociale e dell’etica silenziosa e consunta a vantaggio di un nuovo fare, di un ethos della differenza, oppure di una artetica (se accogliamo l’idioma salentino che traduce il termine in “dinamismo”, “irruenza” o “impulsività”).
Sul Palco di Francesco Arena (Mesagne, 1978), torre in acciaio di oltre quattro metri, si esibisce la cruda ironia di uno spazio compresso e serrato: all’interno i 328 metri quadri di parquet racchiusi nella struttura metallica sono la mimesi stridente della realtà industriale dello stabilimento ILVA, azienda siderurgica tarantina. Un po’ come era stato per l’intervento di Francesco Carone per l’antesignana iniziativa pugliese Fronte del porto, l’opera guarda al mare. Esposta su un molo nel porto della città, essa trattiene in sé l’urgenza di una visione libera, di uno sguardo dall’alto su quanto è nascosto dentro gabbie e silenzi. In questo modo l’estetica della posizione diventa voce-non-ufficiale, estroversione della parola non detta ma potenziale.
Decostruire è soprattutto creare altrimenti nel tentativo di apertura verso nuove logiche e linguaggi. Artetica fa uso del sottotitolo “descrivere il resto” per rispondere all’esigenza di una contaminazione dell’identità territoriale attraverso operazioni impreviste, non codificate. “Ma bisogna tener conto del resto, di ciò che si lascia perdere, non soltanto nel contenuto narrato dalla scrittura (il significante, lo scritto, la lettera) bensì anche nell’operazione di scrittura”. Ad affermarlo è Jacques Derrida (1975), iniziatore del pensiero eterologico e della decostruzione, che ben conosceva l’opportunità alterante della scrittura. Nell’arte, in particolare, tale occasione deriva dal processo creativo con cui un soggetto impone una traccia, disegna un motivo supplementare rispetto alla realtà. Ecco che il resto emerge come cesura, buco, interruzione del dramma: ci piace come alcuni artisti in mostra abbiano saputo attraversare le maglie del sistema collettivo riscrivendo una storia in grado di “narrare il silenzio”.
Andrea Sala (Como, 1976) installa, su alcuni abusi edilizi, strutture in ferro fluorescenti che definiscono la soluzione di una forma interrotta. Beatrice Catanzaro (S. Donato Milanese, 1975) rilegge i invece i luoghi comuni, le opinioni, le credenze e le superstizioni: con l’opera Mamma li Turchi, allestita su una piccola spiaggia della cittadina salentina, l’artista rivolge lo sguardo ai nuovi “nemici”, al venire dell’altro che inquieta la comunità (il riferimento è ai punkabbestia). Luigi Presicce (Porto Cesareo, 1976), in un intervento parallelo all’iniziativa, nell’opera Golfo mistico, interroga invece la croce e il rosario, con un’installazione collocata in mare che aggiunge una narrazione religiosa al folklore locale dei pescatori.
La mostra, curata da Katia Anguelova e Alessandra Poggianti, insegue la cultura del territorio senza deformarla, ma offrendo un singolare angolo d’osservazione. Concepite e realizzate in armonia e collaborazione con le maestranze locali, le opere contribuiscono alla proposta di un’ottica, di un’ironica ipotesi di verità, sebbene l’acquiescenza con cui rispondono alla dimensione urbana tende a renderle un po’ afone e a piegare la loro logica antinomica ad un dir-bene della terra che era da alterare.
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