Costruita sulle tematiche di tradizione e futuro, uomo e città, Chi ha paura della Cina riunisce dodici artisti di due generazioni successive, ultima la post-maoista, nate tra Shanghai e Pechino, come quella emersa tra le gallerie sorte nella ex fabbrica 798 della capitale. La finalità della direttrice del Museo Pino Pascali Rosalba Branà è presentare una sorta di excursus critico e sociologico dell’espressività artistica cinese contemporanea, ponendo questa rassegna a completamento di analoghe di più grande impatto visivo, come Allloooksame alla Fondazione Sandretto di Torino.
Un macro-sistema culturale anomalo (illustrato dai saggi del critico letterario Angelo Delli Santi e della sinologa Mariagrazia Costantino) quello cinese, differente dagli altri paesi socialisti, che ha sposato l’economia dell’occidente capitalista, il mezzo internet e la tecnologia digitale. Lo ha fatto in special modo la cool generation di Shanghai e Canton, formatasi tra il decesso di Mao nel ‘76 e la fase del “balzo in avanti” di Deng Xiao Ping, il massacro di Piazza Tien an men nel 1989, il fallimento politico ed il disimpegno sociale. A questo è corrisposta la ripresa degli stilemi dell’arte sovietica, lo sviluppo del “pop politico”, del “realismo cinico” e l’uso della performance. Come modelli icone del consumismo -già fornite da realtà economiche affermate nell’Asia orientale, di Giappone e Corea- shakerate con un’ampia “galleria di antenati”.
Dalle sculture metallizzate di Ren Sihong (Pechino, 1967) che ferma la “nomenklatura” cinese nella tipica gestualità dittatoriale si arriva ai drammatici ritratti neo-espressionisti di Jan Pei Ming (Shanghai, 1960). Il melting pot massmediale è ispirazione preferita di Xing Jun Qin (Cina, 1960), che accosta il verde delle tute mimetiche al rosso Coca Cola, mentre Yang Jiechang (Canton, 1956) in Eurasia mescola il nostrano mito del calcio agli stereotipi orientali delle bandiere.
Nelle sue performance Zhang Huan (Cina, 1965) rende omaggio alla tradizione artistica italiana mediante la pratica meditativa del Tai Ji Quan. Nelle opere di Tsui Tin Yun (Shangai, 1958) giovani donne in pose erotiche vengono trasformate in pin up da fumetto undergrond, erotiche e discinte Guardie Rosse; operazione affine a quella di Tung Lu Hung (Taiwan, 1968) che sovrappone cultura alta e bassa in immagini trash. Nell’insieme, linee concettuali che vedono l’esaltazione della degradazione e dell’illecito, dopo il puritanesimo laico dell’era maoista.
Per la sezione video, Yan Fudong (Pechino, 1971), in City Light, descrive con stile asciutto e una narrazione appena accennata, l’alienazione di stralunati impiegati, grottescamente impegnati nel conseguimento di un’armonia fittizia, raggiungibile, se interiore, con la tipica autodisciplina orientale. Disciplina sintetizzata da H.H. Lim (Malesia, 1956; vive a Roma) nella performance La Pazienza, estenuante sfida muta tra il pescatore/artista e il pesce. L’emergentissimo videoartista Cao Fei (Canton, 1978) rilegge le contraddizioni giovanili: ragazzi compressi tra retaggi culturali e alienanti abitudini in famiglia cercano l’evasione attraverso giochi di ruolo travestiti da personaggi manga, a fare da sfondo per la pratica del Cosplay lo skyline del contesto sub-urbano Yang Zhenzhong (Cina, 1968), con gesto neo-dada, capovolge graficamente la città di Shanghai, alludendo alla facilità con cui si erigono edifici, dimostrazione dell’assenza di attenzione posta dalla Cina attuale nei confronti della propria storia: la voglia di rinnovamento contro la scelta di conservare e tutelare, tipica della civiltà europea. Una storia che Zang Huan (Cina, 1965), in My Rome, rispetta, muovendosi tra la statuaria antica, ma che Wang Du (Cina, 1956) chiude in sarcastici sacchetti della spazzatura, chiedendosi se “Tutte le strade portano a Roma, o forse il contrario…”. Svelando quell’ambiguità nel messaggio che è segno distintivo di ogni forma di comunicazione cinese e che ha permesso di esprimere sottilmente idee rivoluzionarie quando la libertà di espressione era totalmente soffocata. Una duplicità di lettura atavica, caratteristica insita nell’ideogramma.
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