Germano Celant, nume tutelare dell’Arte Povera, nata nel 1967 e decisamente consacrata nel 1968 attraverso la mostra alla Galleria de’ Foscherari di Bologna e l’infuocato dibattito che ne seguì (documentato in mostra da un’intera sezione del museo dedicata ai documenti, riviste e libri prodotte in quegli anni), ha aspettato una ghiotta occasione per riparlare dell’intero movimento. Una serie di otto mostre messe in rete (questo è il futuro dei musei afferma Celant, non la chiusura egoistica all’interno di progetti isolati, bisogna considerare l’Italia come una grande metropoli), che vanno da Torino a Milano a Bergamo, passano attraverso Roma e Napoli per chiudersi a Bari. Ogni città organizza la mostra attorno ad un aspetto più storico o più contemporaneo (per misurarne ancora la vitalità oggi) e a Bologna, la prima della serie di mostre messa in campo, è toccata l’apertura, il 1968, momento storico bruciante per la rivoluzione allora in corso nel mondo Occidentale che vedeva alleati dalla stessa parte studenti e operai. E l’Arte Povera risente di quel clima, si propone come linguaggio nuovo, non più debitore di antiche e collaudate formule artistiche, opera (afferma Maraniello) uno strappo linguistico e apre a nuovi territori dell’arte, che vedono il corpo nella sua concretezza esistenziale al centro. Non esiste più il quadro insomma, ma l’installazione, la fotografia che documenta un comportamento, una performance oppure il video.
Sono nuovi linguaggi che proprio in quegli anni il mondo artistico fuori dall’Italia utilizza e che nel nostro paese vengono accolti e riproposti secondo una declinazione “povera”, a quei tempi si diceva primaria, nel senso del ritorno ad una tecnologia semplice, artigianale, che svela un uomo a contatto con la natura e con il mondo, con un esserci riflessivo. Emblematiche in tal senso sono le fotografie di Penone, che documentano il suo rapporto con l’albero, individuando nella mano dell’uomo un intervento armonioso, come in Continuerà a crescere tranne che in quel punto (1968), e la fotografia con autoscatto riprodotta su una grande tela di Anselmo intitolata Entrare nell’opera”, dove la piccola figura dell’artista di spalle si perde sul grande terreno che la circonda. La natura qui viene misurata, rapportata all’uomo, leggermente modificata dal suo intervento. L’accento è posto sulla temporalità, sulla modificazione del mondo operata dal gesto dell’artista. Ancora oggi può essere messo in campo il tema della temporalità, però secondo un’altra declinazione, che comprende sia la crescita dei musei (che negli anni Sessanta erano pochi e non si occupavano di arte contemporanea), sia lo sviluppo nel tempo dell’Arte Povera. Insomma c’è da chiedersi se ha ancora un senso riproporre questo movimento e in proporzioni così vaste. Personalmente credo che la riflessione sulla storia sia auspicabile in tempi di brevi memorie storiche e che molte proposte di questi artisti abbiano ancora molta vitalità. Penso però che oggi sia mutato l’orizzonte di riferimento generale, che non è più “primario” e di grande respiro, ma l’accento si pone su un paesaggio secondario e tecnologico e di gittata più corta, non più mastodontico come in certi interventi dell’arte povera. Per dirla con Zygmunt Bauman siamo nell’epoca della modernità liquida, della provvisorietà e del mutamento e di questo aspetto le opere non possono che riflettere il concetto. Le utopie e le ideologie, ancora così al centro del dibattito negli anni Sessanta sono definitivamente crollate e viviamo in un mondo con una catastrofe epocale all’orizzonte.
Quindi l’instabilità non può che essere che al posto della certezza degli anni del boom economico, per quanto interrogati dal corso dei fatti rivoluzionari allora in essere. Emblematico in tal senso è Averroè di Giulio Paolini, dove vengono unite in un’unica asta in acciaio 15 bandiere, quasi a comprendere il mondo attraverso i propri simboli di identificazione nazionale. Oggi il mondo è concepito in senso planetario e globale, il baricentro del potere si è spostato ad est e l’Occidente è in profonda crisi. Ma al di là della diversa declinazione di allora rispetto ad ora, la rottura con un modo tradizionale ancora di fare arte, la conquista dello spazio e l’accento posto sul processo del fare arte, rimane alla base della contemporaneità, per quanto più debole e sofisticata a volte rispetto agli ineliminabili esempi dell’Arte Povera.
carmen lorenzetti
mostra visitata il 23 settembre 2011
dal 24 settembre al 26 dicembre 2011
Arte Povera 1968
a cura di Germano Celant e Gianfranco Maraniello
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
via Don Minzoni, 14
Bologna
Orari: martedì, mercoledì e venerdì 12.00 – 18.00
giovedì 12.00 – 22.00
sabato, domenica e festivi 12.00 – 20.00
Ingresso: Intero € 6, ridotto € 4
Catalogo Electa, a cura di Germano Celant, Gianfranco Maraniello
Informazioni: tel 051 6496611 – fax 051 6496600
info@mambo-bologna.org www.mambobologna.org
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