In via della Seggiola – nell’antico rione Regola, sulla riva sinistra del Tevere – adombrata dall’imponente Palazzo del Ministero di Grazia e Giustizia, progettato in stile rinascimentale dall’architetto Pio Piacentini, padre del più celebre Marcello, visitiamo la nuova sede della White Noise Gallery dove è in corso la mostra di alcune singolari opere site-specific realizzate dall’artista milanese Michele Gabriele, nell’ambito del progetto curatoriale Something Must Break. E ci intratteniamo volentieri, curiosi ed attenti, con il gallerista Carlo Maria Lolli Ghetti, a cui abbiamo chiesto di lumeggiare gli intenti del giovane artista che, di primo acchito, sinceramente non avevamo colto. Questa mostra – ci spiega – nasce dall’evoluzione di una ricerca che Michele Gabriele, che si è formato all’Accademia di Brera, sta svolgendo già da qualche anno: una ricerca sul senso che può avere oggi un’opera scultorea, in un’epoca di comunicazione immediata che avviene soprattutto per immagini (bidimensionali) mentre la scultura, ovviamente, è progettata per interagire con lo spettatore in maniera più fisica. Tulle queste opere, dunque, sono state create partendo dalla considerazione di come sarebbero venute in foto (possiamo pensare, ad esempio, ad un selfie). Sono cioè opere in posa, concepite per essere funzionali ad una comunicazione attraverso l’immagine, in questo caso attraverso il mezzo di internet. Può dire qualcosa sui materiali impiegati? Sono materiali plastici, sono tutti siliconi, con l’intrusione di qualche elemento non elaborato ma aggiunto come ready-made.
Michele Gabriele, Hiding the worst part of me for you, and it cause me dermatitis- (installation view)
Si tratta di una sorta di assemblage messo a punto per dare l’impressione della casualità, per quasi mascherare l’intervento artistico e dare l’illusione di una matrice organica dell’opera. Chi sono i compagni di viaggio in questa ricerca? Il suo lavoro, pur mantenendo una propria peculiarità ben definita, si può accostare a quello di artisti contemporanei come Giulia Cenci in Italia, all’estetica post-internet di Ed Atkins e alle sculture di Nathaniel Mellors. C’è anche un richiamo evidente alla fantascienza degli anni ’80 e ’90: una strana commistione di organico e di tecnologico come vediamo anche in questa mostra. Rammento che un visitatore mi ha fatto notare un’affinità tra i colori ectoplasmatici delle matrici siliconiche e certe cromìe di Medardo Rosso. Si potrebbe anche pensare ad una rivisitazione del filone Pop Art. Non vedo qui un’eco di Pop Art che credo rifuggisse il ready-made. Pensiamo ai lavori di Claes Oldenburg e di George Segal e, in Italia, a Schifano. Il riferimento era a certi assemblage di Rauschenberg…Il paragone mi piace, non è peregrino, c’è un’ironia nell’accostamento degli oggetti che sfiora il grottesco, ma Rauschenberg era più un Neo-Dadaista che un Pop artist…
Da una piccola mostra allestita in un viottolo della Capitale si è spalancata una grande finestra sul mondo. L’arte, a qualunque livello si esprima, possiede una calda qualità interconnettiva, compenetrante. Internet è soltanto un ingegnoso epigono.
Luigi Capano
Mostra visitata il 15 giugno
Dal 7 giugno al 27 luglio 2018
Michele Gabriele, “Clumsy and Milky: enconding the last quarter of a pose”
White Noise Gallery
Via della Seggiola 9, Roma
info@whitenoisegallery.it