Paolo Erbetta, in linea con la sua coerente politica di sostegno agli emergenti locali, sceglie il supporto critico di Ivan Quaroni -che non disdegna di formulare un breve saggio su mimesi pittorica, figurazione contemporanea, allegoria, apparenza, figurativo e figurale- per tracciare il ritratto (un po’ forzato nel riconoscerlo quale originale “
artista di ricerca”) di
Alessandro Passaro (Mesagne, 1974). L’impianto iconografico e pittorico dell’artista salentino appare, invece, formalmente classico, sebbene un’evidente originalità sia da ravvisare nella rivisitazione in chiave pop di un figurativismo di recente matrice tedesca, senza tuttavia la pretesa di raccontare spaccati di vita quotidiana alla maniera del neorealismo anni ’90.
Passaro descrive con pennellate rapide e colori vividi un mix di situazioni che si svolgono all’aperto, spesso in piccole piscine da modesta villetta privata, in location prive di coordinate, la cui connotazione “mediterranea” è data da una luminosità tersa, abbacinante.
Quasi una pittura di rappresentazione vera e propria, di mimesi, se non si guardasse alla dimensione straniante in cui si muovono i personaggi di tutte le età e condizioni sociali, assolutamente “comuni”: ambienti domestici -sale da bagno o da pranzo e living room- a cielo aperto, dove la fa da padrone l’elemento acquatico in cui appaiono immersi, come sorpresi da un imbarazzante ma piacevole allagamento improvviso. Quaroni parla di “
sfratti esistenziali” ed è forse la lettura che dà il giusto peso concettuale a quell’aspetto della pittura di Passaro, in bilico tra non-sense e grottesco. Cifra stilistica che, peraltro, deve piacere molto a Erbetta, se tra i suoi artisti d’annata vi è da sempre il bravissimo e, finora, sottostimato in ambito nazionale
Pierluca Cetera.
Questi addendi forniscono agli olii di Passaro quel senso d’arrendevole abbandono, di trasandatezza estetica propri anche dei personaggi: scapigliati, raffigurati senza scarpe, coi calzini arrotolati, in vestaglia e pantofole, in mutande o reggiseno, tra quelle (loro?) “cose di pessimo gusto” che piacerebbero tanto a un Gozzano contemporaneo; accanto a lavabi, water e bidet divelti, padelle in serie, dozzinali sedie da giardino o arredi in formica, sudici habitat da sfasciacarrozze, pattern decorativi ispirati a mattonelle e pavimenti dal cromatismo anni ’70.
Seppure tutti dipinti della stessa annata, sembra poter individuare due momenti distinti nella produzione ultima di Passaro. Un ciclo di opere mostra un maggior sfaldamento dell’immagine: diviene più difficile rintracciare il particolare anatomico o il dettaglio ambientale, che spesso lasciano spazio alla tela grezza e la composizione è costruita con flash di colori briosi e guazzi ordinati; ma, anche qui, la costante rimane quel “cielo in una stanza” o meglio, un cielo -grigio o azzurro- che fa da stanza. Una speciale meteopatia volta a interpretare lo stato psicologico dei protagonisti e mettere
in-fuori la loro barcollante condizione esistenziale.