Realizzata grazie alla caparbietà del collezionista Vito Labarile, la prima edizione del Premio Lum è riuscita nell’intento di promozione del “brand”, grazie anche al focus incentrato su questioni dibattute attraverso esempi pionieristici, prestati dal panorama internazionale e non. Un’occasione per riscoprire un gioiello, il Teatro Margherita, e per incoronare Bari quale fulcro di una Puglia organizzata come un variegato “museo diffuso”.
La mostra conclusiva, che vede quindici emergenti individuati da Antonella Marino, Luca Cerizza e Francesco Stocchi, offre un’articolata gestione degli spazi e giusto respiro alle opere, collocate in una cornice fredda ed essenziale, fatta prevalentemente di cemento a vista. Denominatore comune: il concetto che supera l’oggetto d’arte.
Su tutti
Francesco Arena, che quasi nasconde l’opera alla vista: un enigma rintracciare le borchie incastonate nella pavimentazione, che ricompongono la planimetria del Teatro Dubrovka di Mosca, noto per il massacro del 2002.
Non sono da meno l’allusione a uno spazio permeabile, intervallato da colonnine e tensostrutture, di
Diego Valentino e
Andrea Nacciariti, con una performance di fumogeni.
Video ricontestualizzati di
Michael Fliri e di
Pennacchio Argentato alludono alla vecchia e nuova identità del teatro, che sorge sull’acqua, mentre particolarmente coerenti nel dialogo con lo spazio sono la proiezione luminosa dello slogan fascista
La cinematografia è l’arma più forte, installata da
Rossella Biscotti, e la composizione – l’idea più intrigante sulla carta, un po’ più debole
in situ, penalizzata dalla collocazione – di grandi specchi dalle cornici variegate, che riflettono il decoro della cupola, di
Dafne Boggeri.
La memoria è centrale (anche rispetto alla planimetria) nell’assemblaggio di oggetti appartenuti al Margherita e raccolti squisitamente da
Ettore Favini: ai due lati,
La verità non esiste, asserzione ambigua perché sospesa a grandi palloni colorati, di
Alessandro Nassiri Tabibzadeh, e la sequenza leggera dell’univoco gesto del “braccio destro” alzato – della statua della libertà come di personaggio storici, carismatici, fantastici – tracciata con metri flessibili da
Michele Giangrande.
Puntano sul materico
Nicola Pecoraro e
Alessandro Piangiamore: la tensione fra desiderio e insoddisfazione è sintetizzata nella mutazione apparente di un tralcio di corallo rosa in un essiccato ramo di legno.
Se notissimi sono gli interventi sonori di
Alessandro Sciaraffa e
Alberto Tadiello, uscenti rispettivamente da
Italian wave e
Premio Furla, più innovativo rispetto al suo percorso recente è il progetto del vincitore del Lum,
Giorgio Andreotta Calò: un sottile dialogo con il pulsare dello spazio urbano esterno, racchiuso in un raggio di luce, modulato dallo scorrere della giornata. Il tutto in un labirinto trasparente.
Quello che resta, oltre all’importante lascito alla città di un’opera finanziata dall’università privata, è la carrellata di ottimi artisti emergenti, già sostenuti da gallerie e provvisti di curricula invidiabili. Quello che manca, per ora, è il coraggio di puntare su qualche inedito
enfant prodige.
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