La mostra, che si è avvalsa della collaborazione di Massimo Carrà ed Elena Pontigia, ripercorre tutte le tappe fondamentali della carriera artistica di Carlo Carrà e prende il nome dalla celebre autobiografia dell’artista recentemente ripubblicata. Il percorso espositivo documenta con disegni e dipinti le diverse stagioni dell’autore, dal giovanile realismo alla stagione futurista, dal periodo metafisico al “realismo mitico” degli anni ‘20 e ‘30, fino al dopoguerra.
Apre la rassegna una serie di ritratti realizzati -non solo da Carrà ma anche per Carrà- da artisti prestigiosi come Boccioni, Martinetti, Manzù, Marino Marini, che rappresentano l’amico e l’artista, cogliendolo attraverso aspetti diversi della sua
Il periodo futurista è presente in opere come Ritmi di bottiglia e bicchiere (1912), in cui Carrà dialoga con Picasso, Guerra navale sull’Adriatico (1914) e Cineamore. I preti, rappresenta invece lo studio preparatorio per l’opera del 1916 de I romantici nel quale si avverte l’età primitivista e metafisica che egli sviluppa, attraverso uno stile consapevolmente ingenuo o “antigrazioso”, ispirandosi alla solidità dei trecentisti toscani come Giotto e Paolo Uccello, ma anche a Henri Rousseau, quasi cercando un ritorno ad un plasticismo tipicamente italiano.
Opere, poi, quali Il Manichino e Il Giocatore di dadi entrambi (1917), costituiscono la genesi della metafisica che si sviluppa in seguito all’incontro fatidico ed apparentemente accidentale, in un ospedaletto di Ferrara, con il suo aedo Giorgio de Chirico. La salda struttura plastica, evidente nel controluce e nell’enfatica tridimensionalità degli oggetti rappresentati, sottolinea la fede dell’autore in un ordine sottostante con un’atmosfera assai diversa dalla diffusa ironia e dal nichilismo dell’opera dechirichiana.
La mostra s’inoltra, poi, negli anni ‘20 con una serie di paesaggi, come Il Paesaggio di Valsesia (1924), significativo esempio della stagione “cézanniana”; lo storico Mulino delle castagne, esposto alla I Mostra del Novecento Italiano
Il percorso espositivo si conclude con la commovente Stanza del 1965, dipinta un anno prima della morte, in cui l’artista, nella stanza vuota e nella porta nera dello sfondo sembra alludere a una sorta di congedo estremo. Chissà se nell’inconscio scolastico di Carrà essa evoca la celebre porta, schiusa sul nulla allarmante, del Monumento Funebre di Maria Cristina d’Austria di Canova, a Vienna, metafora cosmica d’un neo-classicismo ormai ferito e perso.
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