Ludovico Pratesi, per Art&maggio 2004, sceglie un nuovo binomio (dopo Sol LeWitt e Paladino): Domenico Bianchi (Anagni 1955) e Mario Merz (Milano, 1925-2003)
A pochi mesi dalla scomparsa del grande vecchio dell’Arte povera – ultima sua fatica, per “I giganti” dell’estate 2003, la spirale in neon ai Fori Imperiali – viene ospitato sempre all’aperto l’Igloo realizzato da Mario Merz nel ‘98 per il Parco del Fundaçao Serralves di Porto (Portogallo): una doppia impalcatura in ferro, sulla cui convessità si erge la figura del cervo illuminata da un neon; all’interno, le tipiche fascine (materiali poveri) creano un’osmosi tra le energie che accomunano uomo e natura.
La riedizione del prototipo architettonico primordiale dell’igloo (struttura mobile, emblema per Merz del luogo ideale; il primo, nel ’68, fu l’Igloo di Giap), che ingloba una suppellettile lapidea del cortile del castello, ribadisce la natura espressiva assoluta e “atemporale” di materie, oggetti, animali, forme, simboli numerici che lo costituiscono; collocato nell’edificio simbolo dell’identità storico-culturale della città di Bari diviene incarnazione dell’indole “nomade” dell’ “artista” capace di infrangere le barriere tra oriente e occidente, nord e sud, dialogo urlato l’anno scorso anche dalle solari bandiere di Paladino al Fortino.
Simbolismi e “assoluto” anche per Domenico Bianchi, debitore del folgorante incontro artistico con i coniugi Merz e Jannis Kounnellis. Negli anni ’80 vicino ai nuovi “romani” – Ceccobelli, Dessì, Gallo, Pizzi Cannella, Tirelli, Nunzio, gruppo pervaso da una “tensione che spinge le pulsioni dell’immaginario verso il contenimento formale” (Bonito Oliva) nonché da un “recupero di attenzioni materiche pittoriche ed extrapittoriche” (Crispolti) – caratterizzerà i suoi lavori con superfici mosse da affioramenti segnici, pervase da una spiritualizzazione quasi mistica, dove l’uso dei materiali naturali è una felice rilettura del “poverismo”.
Bianchi interviene nella Sala Angioina del castello con uno scenografico “faccia a faccia”: purezza ed essenzialità è nella luminosità della tela sulla sinistra, dove l’effetto lattiginoso ed opalescente della cera è arricchito dalla fluidità del segno che, costruendo figure circolari con il palladio (una lega rossastra), affoga nella materia molle; di fronte, la maestosità delle undici tavole accostate per oltre venti metri, giocate sui toni chiari del legno e degli intarsi argentati, in un rincorrersi di “mondi” pregiati, equilibrio tonale interrotto al centro da un riquadro geometrico-materico in cera nera.
Particolarmente minimale, ma disomogenea secondo il “privilegio del frammento” (Bonito Oliva) nella stessa opera, l’installazione incarna quel “principio del piacere” che si sostituisce al “principio di realtà, specie per il profumo dei materiali naturali impiegati che penetra intenso nelle narici e ci fa amare un artista forse ancora poco noto ai più. Decisamente una scelta coraggiosa, per un’èlite di raffinati gourmet.
Un’anticipazione: a giugno, la Sala Murat ospiterà “La zona” di Massimiliano Gioni, ultima iniziativa programmata da Pratesi, cui è lecito riconoscere di aver fatto competere Bari con altre realtà meridionali. L’opportunità di una ribalta nazionale offerta agli artisti Schirinzi e Arena, premiati durante l’inaugurazione di Art&maggio dalla commissione di esperti del “Gap”, fa poi ben sperare che non si consideri più la Puglia figlia di un dio minore…
giusy caroppo
vista il 30 aprile 2004
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