È visibilmente felice Yumi Karasumaru (Osaka; vive a Bologna) quando accoglie i visitatori della sua personale nello spazio di Fabio Paris. Sono state necessarie alcune ore per la vestizione e l’acconciatura, ma il risultato è impeccabile. Un costume tradizionale che l’artista giapponese indossa con naturalezza, senza affettazione, ma che fa piombare in un ambiente radicalmente diverso. D’altro canto, nel lavoro di Yumi Karasumaru non è estranea la dimensione performativa. Basta “sfogliare” il portfolio realizzato nel 2001, una vera e propria opera in flash, dove fra l’altro si possono osservare alcuni video la cui azione è appunto interpretata dall’artista. Si potrebbe leggere nel medesimo senso il canto tradizionale nel quale si è esibita durante la stessa sera, con una dolcezza che strideva accanto alle sue tele. Perché il punto è esattamente questo. Nella personale bresciana, ma anche nelle serie dedicate alla famiglia o alla bomba, Yumi si è confrontata e si confronta continuamente col passato. Col proprio vissuto personale e con la tradizione più lontana, ma inevitabilmente filtrati dalla sua emozionalità e visione.
E tuttavia, se si limitasse a questo ci troveremmo di fronte a un lavoro di mero dialogo col tempo andato. Intimo e/o storico. Dal valore nazionale oppure strettamente personale. Il che non sarebbe necessariamente criticabile, pur perdendosi nel mare magnum di indagini similari compiute per esempio da molti artisti cinesi contemporanei. Occorre allora indagare un po’ più a fondo il suo fare, rintracciarvi le peculiarità che ne contraddistinguono il procedimento artistico.
I lavori in mostra sono una decina, tutti recenti, uno dei quali è stato terminato poco prima dell’inaugurazione. Lo stridìo al quale si accennava concerne certamente l’abito tradizionale e le celeberrime minigonne delle collegiali giapponesi. O il loro trucco pesante, i gesti sguaiati che cozzano con l’inchino tutt’altro che lezioso di Yumi. O ancora fra l’accartocciamento su una borsetta e le mani giunte con delicatezza. Il sorriso appena accennato e la smorfia aggressiva. Sono tutti fattori che creano una distanza. Non un allontanamento. È come se Yumi indossasse il kimono per vedere meglio ciò che ha di fronte quando, per le strade di Tokyo, osserva e fotografa le sue improvvisate modelle.
Poi basterebbe pochissimo. Decidere la soglia di solarizzazione, le dominanti cromatiche, sull’immancabile Photoshop. Yumi invece fa ancora un passo indietro, senza però miniare i propri scatti. Utilizza un proiettore – come faceva Schifano, con un balzo in avanti, in quel caso – e ricama le immagini, i loro contorni, spesso a matita.
Solo in seguito intervengono i colori, le chine e gli acrilici. Con una sapienza cromatica strabiliante dà allora vita a calde solarizzazioni manuali, dove possono dominare i rossi o i rosa, tonalità che si susseguono e inseguono con una presa di distanza almeno temporanea dal soggetto. Al punto che, da un’osservazione prossima alla tela, ne scaturisce un effetto quasi optical.
Ma è a quel punto che si opera l’ennesima rivoluzione. Perché le zone bianche, che si pensava dovessero “soltanto” articolare lo spazio pittorico, pullulano invece di personaggi da fiaba acida. Pupazzetti e topolini, gadget e diavolerie elettroniche. Ovvero, dove pareva celebrarsi la calligrafia, emerge invece la contemporaneità più spinta.
Che dire allora, se non rinnovare l’auspicio espresso nel 2003 da un giovane collezionista? Fra tanta pittura inguardabile al MiArt X, qualche Yumi in più sarebbe stata oltremodo gradita.
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