È antica quanto il mondo, la questione del rapporto fra arte e spazio espositivo, con le problematiche poste dal continuo variare delle esigenze legate agli sviluppi dell’oggetto artistico nell’era postmoderna. A livello internazionale, certamente il concept che va prevalendo oggi è quello del white cube, ovvero dello spazio bianco e neutro, in grado di garantire alle opere la più totale intangibilità da influenze e “inquinamenti” ambientali. Ci sono tuttavia luoghi che, ancorché fortemente caratterizzati a livello architettonico e quindi portatori di suggestioni proprie, riescono a mettere questa intrinseca pregnanza “al servizio” delle opere che ospitano, predisponendo il visitatore all’esperienza visiva. Appartiene a questa categoria la Rocca Albornoziana di Narni, eretta nel 1367 sui resti di un primitivo insediamento militare costruito da Federico Barbarossa e, dopo varie vicissitudini, ristrutturata come contenitore espositivo.
Un luogo magico, dove da tempo si progetta la creazione di uno stabile Centro per l’Arte Contemporanea, spazio espositivo permanente che valorizzi i molti stimoli che ormai animano la regione. Un luogo che si erge sopra la cittadina, ma che poi vive di una vita propria, immerso fra boschi e stradine bianche. Dalle quali potresti immaginare di veder passare San Francesco con i suoi frati, magari diretti al vicino Eremo del Sacro Speco. Ancor più, traguardando fra le mura in parte ancora dirute, il pensiero corre alla Fortezza Bastiani del
Deserto dei Tartari, evocata dal metafisico e straniante silenzio.
Una sorta di esercizio di purificazione mentale e cognitiva che introduce alla bella personale di
Paolo Serra (Morciano di Romagna, 1946; vive a Castelleale di San Clemente, Rimini), curata dalla galleria Ronchini di Terni. Venticinque dipinti che ripercorrono una buona fetta della ricerca pittorica sulla luce, la forma e lo spazio che da sempre caratterizza il lavoro dell’artista. Opere astratte, dove l’artista affida molte delle sue esigenze espressive alle vibrazioni cromatiche, alla grande profondità di queste superfici apparentemente piatte e quasi monocrome. “
Un lavoro”, scrive Achille Bonito Oliva nel catalogo, “
dove precipitano in maniera stratificante le figure morali di Mondrian, Malevic, Albers, Reinhardt, Newman e Rothko come antenati che sorvegliano l’evoluzione del linguaggio astratto fino alla soglia del XXI secolo. Egli accoglie nella propria iconografia l’atmosfera della filosofia Zen, capace di conciliare progetto e casualità, geometria ed indeterminazione, forma e materia”.
Malevic,
Rothko. Ma poi osservi da vicino questi pannelli, queste austere e rigorose illustrazioni di un’anima apparentemente fredda con le sue incrollabili certezze. E vedi tutta la storia di una perizia artigiana, vedi la verità di colori preparati a mano con ricette antiche, senti la ritualità delle decine di stesure di tempera all’uovo, e lo studio sul
Libro d’Arte di
Cennino Cennini. E allora tutto assume una dimensione nuova e diversa. Allora diventa risolutiva la domanda che si pone, nel suo testo critico, Kenneth Baker: “
Deve, il pittore, invertire la priorità modernista della realtà fisica dell’arte sull’esperienza mediata? O deve insistere sull’insostituibile realtà del manufatto e lasciare al caso e alla fortuna l’aspetto che questo prenderà in forma mediata?”. La risposta, Paolo Serra ce l’ha già data.