Un grande garage, vecchio, dismesso, dagli alti soffitti, ora sistemato e tutto ridipinto di bianco. Un’unica stanza dall’enorme volumetria e la striscia di un muro orizzontale, anch’esso bianco. La frizione tra masse vuote, muro e i colori delle opere colpisce subito: messe in serie, perfettamente equidistanti, ottanta tavolette di quindici centimetri, come i francobolli di un paese remoto o le tante tessere di un postmoderno mosaico incompleto.
È questa la prima sensazione che si ha entrando alla mostra. E forse è proprio questo che deve fare un gallerista: ordinare gli stimoli che scaturiscono dagli artisti che espone, creare l’humus su cui fare attecchire le loro idee. Soprattutto come nel caso dei giovani canadesi (tutti nati nel 1974-75) Marcel Dzama, Michael Dumontier e Neil Farber riuniti nel collettivo pomposamente autodefinitosi Royal Art Lodge , il cui lavoro è permeato da una ironica e bizzarra anarchia creativa. Il sodalizio tra i tre, frutto dell’incontro settimanale (abitudine ereditata da quando erano ancora studenti della stessa università), è testimoniato da una tavoletta in cui tre mani stringono i rispettivi avambracci disposti a triangolo, in maniera quasi massonica. Ecco la relazione che li lega, la Self Serving Secret Society che dipana e spiega il proprio nome, ma anche l’esigenza di lavorare in un processo in cui al lavoro di uno si somma quello degli altri membri, in piena libertà e rasentando spesso l’assurdo. Il lavoro viene così animato, anche grazie alle scritte spiazzanti, da cortocircuiti logici molto vicini ai surrealisti. Per cui una donna consapevole di essere bella, dichiara di sentirsi “un drago” vicino ad un tenero coniglietto, oppure una tavola con delle tartarughe che stanno camminando in bocca ad un coccodrillo viene titolata Agnelli al macello. E poi ci sono le figure nere di uomini Morti dentro abitati da fantasmi, o dinosauri che vomitano sangue, ma anche alberi umanizzati con occhietti e bocche come nei disegni infantili. E una barca con dei pescatori evidentemente trasformata in una prigione con lo scafo in muratura e gli oblò coperti da sbarre titolata Pesca per i prigionieri.
Sembra questa la cifra stilistica dei loro lavori: il piacere ludico di spiazzare, di far pensare/inorridire/sorridere, anche con amarezza. Voler confrontarsi con i più intimi processi psichici, sviscerandoli attraverso le figurazioni fumettistiche ed infantili, mediate non più o non solo dal disegno, ma da un più classico uso dei colore ad olio.
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