È solo negli anni Settanta che la fotografia esce dall’impasse in cui l’aveva gettata la controversia tra identità artistica e oggettualità documentaria. Lo fa con una scelta radicale, ovvero una presa di posizione “altra”. In questa mostra la Galleria Massimo Minini si incarica di sottolineare il contributo che Luigi Ghirri (Scandiano, 1943 – Roncocesi, 1992) ha apportato a questo periodo critico, con una rassegna in nuce delle più famose serie fotografiche del decennio (spesso proposte in stampe vintage). Si passa poi alla svolta paesaggistica degli anni Ottanta, cui la galleria ha dedicato una retrospettiva durante Art Basel 2006. Stando alle dichiarazioni della curatrice, Elena Re, si tratta quindi di un “flash-back” per scoprire i presupposti che porteranno Ghirri alla sua idea di paesaggio.
Sin dagli esordi l’ambiente catturato dall’autore si connota per una forte artificialità, quello ritratto è infatti un mondo alla seconda, ambiguamente sospeso tra lacerti di realtà mediocre e ben più attraenti riproduzioni fotografiche. Quello che spesso la critica coeva interpreta come un debito alla pop art, si rivela nel complesso un’indagine linguistica di segno concettuale: già nella serie Kodachrome, la presenza dell’immagine nell’immagine dichiara illusoria la credenza che la fotografia possa avere una presa diretta sulla realtà, che si rivela già codificata. Ecco allora l’allontanamento dal fotogiornalismo bressoniano. Questo non porta però a una fotografia artistica: l’opera di Ghirri è volutamente scevra da inquadrature d’effetto e ricercatezze stilistiche. Una prospettiva centrale è lo strumento minimo che l’autore adotta per concentrarsi piuttosto sui risvolti mentali dell’opera.
Si procede così, di riflessione in riflessione, col susseguirsi delle serie, che sviluppano aspetti diversi del problema dell’identità moderna dell’uomo, tutta compresa (e compressa) nel margine di gioco tra verità e copia, immaginario ed omologazione. Nelle serie Catalogo e Colazione sull’erba, l’esistenza umana è percepibile da scelte ambientali minime, scarti e differenze insignificanti se non poste in rapporto reciproco. La texture di una mattonella piuttosto che il taglio geometrico di un alberello significano un tentativo di emergere individualmente, tra migliaia di possibilità analoghe.
La vera rivincita dell’immaginario, Ghirri la ottiene nella serie Atlante, che non a caso domina la parete centrale della sala. È paradossale (e molto concettuale) come il minimo impiego dei mezzi, la semplice ma ragionata ripresa di immagini da un testo scolastico, riesca ad evidenziare la carenza dell’oggetto ad imbrigliare la potenza del pensiero. Partendo dalla constatazione che tutte le rotte sono già tracciate, la mente si assenta per intraprendere un viaggio del tutto proprio.
È il senso del passaggio, questo margine di differenza tra già deciso e casuale, tra la purezza del riprodotto e la sua riappropriazione ad opera del tempo o della memoria (vedasi Still life), che Ghirri si porta dietro negli anni Ottanta, quando smette il rigore dell’artista concettuale e si concentra sul tema del paesaggio. Resta un approccio minimalista all’esistenza, già evidente ai tempi di Italia ailati, una re-contestualizzazione del singolo elemento per ridargli senso, potenza. La consapevolezza che i non-luoghi, le soglie silenziose dei porticati e le distese sterminate di grano, sono quanto resta dopo l’aggressione dei segni e degli artifici, il punto da cui aprire la realtà a nuove letture.
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