La mostra si muove tra noti esempi d’arte contemporanea intorno al concetto di lavoro. Il lavoro degli artisti subisce un imprinting dall’indagine socioantropologica che si dipana per tutto il XX secolo. Da arbaiter, l’artista si trasforma in maneger, dalla Bauhaus si arriva alla Factory newyorkese in cui si accetta la sfida del capitalismo e si depone ogni speranza per l’arte di intraprendere una missione sociale.
Se è vero che la modernità, come direbbe il sociologo Bauman, è un progetto, è altrettanto vero che il fallimento di tale progetto avviene quando la sua realizzazione prevede l’entrata in scena di fattori imprevisti, capaci di sconvolgerne la pianificazione. L’utopia delle avanguardie, una volta abbandonata la portata eversiva e deposte le armi contro l’ordine costituito, si concentra sulla creazione di una soggettività forte. Il curatore Angelo Capasso dimostra quanto una forte soggettività sia propria dell’artista come del curatore stesso. Con un’abile regia, infatti, Capasso ha saputo sfruttare al massimo gli ambienti ed ha disposto esempi eccellenti come il sacco “sistino” di Wang Du che rimanda al capolavoro michelangiolesco -ready made e immagine catastrofica dell’assoluto idealista dell’arte- e che rende più comprensibile la versione simulativa di Plamen Dejanoff pronta ad invertire la serialità industriale in un unicum senza rinunciare all’apparenza.
Il lavoro –la mostra si svolge nell’alveo dei festeggiamenti per i 100 anni della CGIL- è poi riproposto come alienazione da un’attività intellettuale più nobile. In un riflusso protosettecentesco di fobia verso ogni fatica fisica, il lavoro è oggi tutto nella distanza noumenica che ci offre il computer responsabile di una separazione dalle azioni ripetute della fabbrica chapliniana tanto da far sentire il lavoratore più programmatore che programmato. Il somaro trapuntato di Perino e Vele simboleggia la fatica ma indica, al tempo stesso, il suo attuale occultamento. Il disagio della disoccupazione, la povertà di un’insufficiente retribuzione, una marginalità evidente nelle periferie allucinate di Botto e Bruno o nei lividi realismi delle sculture di Luisa Rabbia.
Dobbiamo, arrivare alla sfacciata esibizione del riscatto sociale di un artista come Sisley Xhafa (Self portrait, cocomero su piedistallo, 2006) per dimostrare che il “frutto del sudore della fronte” può essere opera d’arte dopo averle dato l’onore di un piedistallo. L’isolamento e una distribuzione sgranata ed efficace delle opere mettono in risalto l’ironia di una Enrica Borghi. Altrettanto buone sono le scelte di esporre il Nido d’amianto di Goldiechiari ( 2004, amianto ed eternit 50X50X50 cm) in una posizione isolata così come il fresco ritratto fatto all’artista H.H. Lim (anch’egli presente in mostra) da Yan Pei Ming.
La mostra di Capasso, paragonata al blasonato evento Tempo Moderno curato da Germano Celat a Genova, potrebbe andare in secondo piano per inferiorità di mezzi e risorse organizzative, invece, la distinzione metodologica e la scelta di una dimensione più riflessiva scoprono un versante completamente autonomo e del tutto originale. Il capolavoro, infatti, non ha nulla a che fare con un sistema corale di produzione e di sfruttamento, è qualcosa di incomprensibile, e mette a repentaglio ogni progetto esistenziale poiché indica una via d’eccellenza non il risultato d’una prassi costante.
marcello carriero
mostra visitata il 31 maggio 2006
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