Quello di Matteo Clementi è un linguaggio già maturo, un lessico che nasce dalla volontà di indagare l’animo e i sentimenti personaggi ritratti. Nei suoi quadri ci si trova di fronte alla rappresentazione di esperienze profonde, tradotte negli effetti chiaroscurali dei corpi torniti e vivi con l’odore forte dei fatti e delle passioni vissute.
La dimensione ravvicinata che caratterizza i ritratti di Clementi, presume una volontà di indagine psicologica; si prefigura in questo modo l’intento di raccontare, attraverso le scolature, i grumi e le valenze del colore, i ricordi che avvolgono in un turbinio di emozioni i personaggi. Rivoli di tinta, che scendono sulla tela come a formare una trama, ora larga ora fitta, invadono le sue opere, fino a rivelare l’identità nascosta dei personaggi. Un’interiorità assoluta, una rete di sensazioni, emozioni, esperienze, che invadono il quadro e lo riempiono fino a non fare vedere neanche un piccolo s
Allo stesso tempo volti, persone, corpi ed espressioni, prendono forma, con decisione, unendo indissolubilmente la sfera del racconto profondo –reso attraverso un certo astrattismo pittorico- a quella della rappresentazione oggettiva del ritratto. È questo un aspetto interessante nelle opere di Matteo Clementi, che –va ricordato- non ha una formazione di Accademia; la sua pittura, che somma istanza contemporanea e riferimenti all’arte del passato, viene fuori da una forte esigenza interiore. L’uso del colore ad olio, l’assenza di un disegno di preparazione, l’inquadratura ravvicinata che sta alla base di molte sue opere, sono aspetti che si ritrovano ad esempio nell’opera pittorica dei ritrattisti veneti del Cinquecento. Pennellate che son tanta carne mista col sangue, come scriveva Marco Boschini, forse il più noto scrittore d’arte veneto del secondo Seicento. E leggendo queste frasi di fronte ad un ritratto di Matteo Clementi il parallelo pare calzante.
germano boffi
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