“‘Chiamami la settimana prossima, andremo in un posto che io amo molto e che si chiama Chia, ma, te ne prego, non ne parlare con nessuno.’ Mi parlò tutta la notte, vicino al caminetto, di un lavoro che voleva fare con me, un lavoro rischioso e pericoloso fino alla galera e di cui nessuno, né Laura [Betti] né Moravia, dovevano sapere nulla.”
Pier Paolo Pasolini amava circondare di mistero ogni cosa che lo riguardava. I suoi personaggi, gli oggetti, i paesaggi erano per lui antinaturali, cioè segreti, ambigui, e per questo poetici. Quando Dino Pedriali (Roma, 1950) lo segue a Chia, nell’antica torre medievale circondata da una natura incantata e oscura, è già immerso in un clima di mistero e di sogno, una dimensione mitica e sacrale che trasfonde nelle straordinarie fotografie che Pasolini vuole come illustrazione, tavole fuori testo, del suo enigmatico, ultimo romanzo, Petrolio. La struttura magmatica del romanzo-fiume, i continui cambiamenti di forma e slittamenti di stile, le oscurità di senso improvvisamente rischiarate da una nitidezza illuminante, ci mostrano uno scrittore preoccupato di non farsi ingabbiare in una forma univoca, omologante. A fatica l’obiettivo di Pedriali insegue lo scrittore, avanza e arretra davanti alla sua figura, si sporge fino a sfiorargli la nuca mentre scrive o legge, s’inginocchia ai suoi piedi mentre disegna, si nasconde dietro un pilastro o un albero per coglierlo di sorpresa, si sofferma sulle pareti bucate dalle grandi vetrate o sulla natura intorno per far solo intuire la sua presenza nell’ambiente. Pasolini sfugge ad ogni definizione, continuamente. Quando sembra che Pedriali ne colga l’essenza più intima negli intensi primi piani del viso o delle mani sulla Olivetti, intellettuale lucido e solitario, macchinista di senso, ecco che riemerge l’attore, il barocco Narciso in posa ostentata per le vie deserte e metafisiche di Sabaudia e poi ancora l’essere ferino, il profeta oscuro che si staglia in controluce, misterioso e sacro come la diroccata torre di Chia, su una natura antica e mitica.
In un voluto gioco di sovrapposizioni tra letteratura e vita, Pasolini, come il Carlo di Petrolio, inscena lucidamente il dramma della sua duplicazione psicologica, della sua ammessa ambiguità. Complice l’attitudine scenografica, luministica della fotografia di Pedriali, la fortezza-studio di Chia si trasforma in un palcoscenico vuoto e inondato di luce. Il buio e il silenzio della notte creano una sensucht, un’atmosfera sospesa, di tensione ed attesa che il mistero si sciolga, che il dramma si compia. Ed è allora che l’occhio voyeuristico del fotografo coglie l’epifania del corpo nudo del poeta, “quella terra ancora non colonizzata dal potere”, mentre legge o riposa nella sua camera austera e spoglia come un’antica cappella. Il copriletto è un sudario su cui la luce si riflette, il corpo di Pasolini ne è quasi un’emanazione, scultoreo ed evanescente al tempo stesso, sacro e scandaloso, indefinibile perché “è solo in un continuo slittamento di stili e formule che lo scrittore riesce a farsi appena intravedere nudo”.
Come nella performance Intellettuale di Fabio Mauri, dove il suo corpo diventava schermo luminoso, anche lì pura essenza portatrice di senso, Pasolini offre tutto se stesso al pubblico, s’impone per ammonire e condannare, si espone in tutti i sensi per obbligarci alla riflessione. Poi la scena si oscura, l’intellettuale non illuminerà più le coscienze con la sua presenza, le luci del suo “teatro dell’esistenza” si spegneranno pochi giorni dopo queste foto, il 2 novembre 1975.
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barbara improta
mostra visitata il 10 novembre 2006
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