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Per fare un buon gilet basta depensare un gilet”. Quindi la “decostruzione”, idea di forma piuttosto che forma. Annullare l’asserzione dell’“essere”, del presente e dell’esistente. Un percorso a ritroso da leggere secondo criteri concettuali applicabili alla scrittura o più affini alla filosofia; li applichiamo a una mostra senza curatore e testo critico, introdotti dal puro messaggio delle opere di
Tullio De Gennaro (Bari, 1948), artista legato alla galleria Bonomo subito dopo il primo approdo, negli anni ‘70, da Lucio Amelio a Napoli e da Franco Toselli a Milano, con il gruppo C.R.P.A (Centro Ricerche Poteri Alternativi).
Alternativo, De Gennaro lo è sempre stato: grazie alle suggestive installazioni sonore -con jazzisti come Marcello Magliocchi e Roberto Ottaviano-, per gli originali environment e video, in terra d’origine come in ambiti internazionali, a Basilea, New York, Vienna, Ginevra, Londra, in Svezia, in California; con performance dall’estrema leggerezza, che connota anche segno grafico e cauto cromatismo. Un segno quasi impercettibile e insieme tagliente, che pare incarnare appieno la critica alla “metafisica della presenza” proposta dalla decostruzione.
Nella mostra
I gilet, quella forma che non c’è diviene un allusivo gioco di proposizione di volumetrie tridimensionali e geometriche, ombre e sovrapposizioni di piani che non fanno che accentuare il labile confine tra spazio fisico in cui ci muoviamo, materiale dei supporti ritagliati e aggettanti, e quello disegnato, virtuale, allusivo a quello mentale.
Un po’ come per la musica -incorporea e insieme avvolgente- così i tratti irrompono anche sulla superficie di raffinati patchwork in multistrato e di grandi carte neutre, spesso interrotte dal rosso spento della tempera. Osservandole con attenzione, le sagome somigliano a “modelli” da sartoria, aperti e sovrapposti, ritagliati e rimontati, casualmente o intenzionalmente, in cui la linea ora è semplice traccia, ora è elemento concreto che unisce piattezza a parete e volume scultoreo.
A opere di impatto “museale”, De Gennaro accompagna più timide installazioni, quasi ermetiche: dalla imponente staffa disegnata a grafite, anomalo burattinaio di mitragliette in compensato, fino ai due tavolini in ferro che raccolgono, pressandole, sdrucite carte in cotone segnate “urgentemente” e con forza dall’artista.
I piccoli disegni e collage raccontano ancor di più Tullio De Gennaro: aniconici o apparentemente tali (con astrazioni di morandiana memoria), sono firmati proprio al centro, come pagine autografate di un diario, momento intimo di chi preferisce lasciare raccontare agli altri -a chi legge, a chi guarda, a chi ascolta- i suoi eloquenti silenzi d’artista.