Una grossa vela, centrata da un ringhioso cane dipinto da Jean Dubuffet, accoglie i visitatori di questa ennesima felice collaborazione tra la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e la Guggenheim di Venezia. Una vela spiegata, perché quello proposto è un vero e proprio viaggio alla scoperta dell’informale, delle sue radici e dei suoi esiti. Un viaggio in verità già partito lo scorso anno dal porto franco dell’action painting americana, profondamente debitrice del surrealismo europeo di Sebastian Matta e soci, e che ripercorre ora gli esiti informali della pittura europea, partendo dal suo più grande rappresentante, Dubuffet, considerato al tempo negli Stati Uniti come l’erede unico di Picasso e stimatissimo dallo stesso Pollock.
Il viaggio prende inizio con un copioso nucleo di opere di Dubuffet, comprendente numerosi dipinti –dall’enorme trittico Nunc stans alle opere decisamente più materiche-, ma anche sculture e una ricca selezione dell’imponente corpus grafico. Un neo? La scarsità di opere del maestro in cui la materia diventa elemento di inaudita sperimentazione –come quelle realizzate con elementi vegetali e ali di farfalla-, ma del resto la mostra non è certamente una monografica su Dubuffet.
A rappresentare egregiamente nel percorso l’informale più materico sono peraltro da una parte gli artisti del gruppo CoBrA, inebriati dalle possibilità espressive del colore –Corneille, Appel, Alechinsky-, dall’altra i tre big italiani Manzoni, Fontana e Burri, del quale segnaliamo perlomeno una stupefacente Composizione del -udite, udite- 1948.
Il filone più gestuale è testimoniato, per rimanere in Italia, da opere di Tancredi ed ovviamente nell’imperituro Vedova, anche se, tolto l’Elmo di Scipio, non reggono certo il confronto con i lavori di Soulages, Hartung e soprattutto Mathieu, vero e proprio Zorro dell’informale…
Ma c’è un altro rivolo di sperimentazioni europee del dopoguerra. Stiamo parlando di quello che portò alla creazione, sempre in ambito informale, di codici, o meglio alfabeti segnici. In questo caso sono gli artisti italiani a spadroneggiare: dall’ornato di Carla Accardi che sembra desunto dagli antichi e arabeggianti caratteri cufici, agli scarabocchi di Novelli (affiancati da quelli gestualmente più liberi di Twombly), fino ai più noti lavori di Capogrossi.
Vicino ai sopraccitati artisti di CoBrA si muove quel provocatore situazionista di Pinot Gallizio, documentato nel percorso da due lavori esemplari. La prima è un’opera collettiva realizzata a più mani assieme a Jorn, Constant, Kotick, Melanotte e Simondo, quasi a simbolo di un’arte democratica perfino nella realizzazione; la seconda è un notissimo Rotolo di pittura industriale del 1958, lungo 74 metri e solo in parte srotolato. Venduto un tanto al chilo –o meglio, un tanto al metro- questa pittura serviva per realizzare quadri, ma anche tende e perfino abiti. Insomma, in qualche modo anche l’informale aderì all’antico sogno della Gesamtkunstwerk…
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Mi sembra una critica una serie di commento piuttosto superficiali, forse ha visto la mostra di corsa, ma non citare l'opera di Tapies, sicuramente una delle vette della mostra mi sembra un vero peccato.
Altro peccato della mostra, l'illuminazione pessima che non permette di vedere i qualdri nella sua pienezza, spesso certe opere risultano illuminate solo parzialmente.
Per esempio la piccola ma inportante opera di Santomaso è praticamente al buio.
M.
La mostra è dedicata a Dubuffet, gli artisti esposti sono decine, ma trascurare Tàpies in effetti è stato imperdonabile. Mea grandissima culpa...
Sull'illuminazione non sono invece d'accordo; certo tutto è migliorabile, ma le opere erano perfettamente leggibili, cartellini compresi,solitamente esposti a metri dall'opera; anche la presentazione della gustosissima sezione bibliofila, che dovrebbe accompagnare sempre una mostra che si rispetti, presentava un allestimento congruo alla portata dell'evento.
ducc-io
Vorrei chiedere a Duccio Dogherio, senza alcun intento polemico, in base a quali criteri l' opera di Tàpies esposta alla mostra debba essere considerata una delle vette della mostra stessa. E in base a quali criteri i lavori di Tancredi e Vedova non reggano il confronto con i lavori di Soulages, Hartung e Mathieu. Ad esempio, non capisco per quale ragione non possa stare alla pari di questi l'opera di Schneider esposta. Ribadisco che pongo queste domande sine ira et studio, nello spirito del più civile dibattito 'illuministico' ( in senso lato, s'intende). La ringrazio dell' attenzione.