Se c’è un’opera d’arte capace di riportare l’osservatore a quelle sensazioni primarie che la storia ha assegnato agli Elementi, all’ineffabile tracotanza del ferro, alla carica evocativa del blocco di terra, e alla lotta dell’artista per violarne l’autarchia minimale; questa è l’opera di Giuseppe Spagnulo (Grottaglie, Taranto, 1936).
La sue sculture sono l’oggetto di questa battaglia senza vincitori, testimoniano dell’impeto distruttivo/creativo dell’artista che non si è compiuto, perché non si doveva compiere. Se Richard Long assume l’intangibilità degli elementi e ne fa il fondamento della sua poetica, Spagnulo non ci sta. E nella sua impresa titanica mobilita un altro elemento: “…il fuoco, il vero mezzo”. “Gli unici materiali che ritornano ed esistono per me sono il ferro e la terra, entrambi legati dal medium del lavoro che è il Fuoco”, spiega.
Il Fuoco diventa il demiurgo, che riesce ad ammorbidire la resistenza del blocco di ferro, come riesce ad indurire l’argilla, a vincere la sua precarietà. Escono rafforzate da questi eventi le opere di Spagnulo, anzi ne portano tutta la carica simbolica ed espressiva. Come Ferro spezzato, del 2003, con i tagli netti che, più che rimandare a Fontana– di cui Spagnulo fu assistente a Milano-, paiono ferite ancora aperte, con il blocco di metallo che pare ostinarsi a voler conservare vaghe forme geometrizzanti.
O come l’omonimo Ferro spezzato, questo del 1992, dove invece le morbide fenditure, che appena abbozzano una forzatura plastica, o per meglio dire la dissimulano, si caricano di un’inattesa sensualità, altra sensazione primaria certo non estranea alla vis creativa.
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