Una figura straordinariamente complessa, quella di
Virginia Ryan (Melbourne, 1956; vive a Trevi e Accra): scrittrice e arte-terapista, ha vissuto in Egitto, Brasile, Scozia ed Ex-Yugoslavia, dal ‘95 risiede fra l’Italia e il Ghana. Una biondissima
Marilyn contemporanea -descritta con dovizia in catalogo dall’assessore spoletino Giorgio Flamini-, quasi incarnazione di un percorso artistico che ha preso il là dalla sua persona, appunto, un’opera d’arte, sublimazione di forme e colori ai confini del mondo.
Monocromie soprattutto, fatte di contrasti tra bianchi e neri o di écru per le opere dal 2001 a oggi, prodotto di quella “
bulimia creativa” evidenziata da Achille Bonito Oliva nell’ambito del Festival dei Due Mondi. E si prestano egregiamente gli ambienti ampi e puliti, sviluppati anche in altezza, del prezioso Palazzo Colletta, per un’antologica calibrata in situ. Opere imponenti per leggere narrazioni delle onnipresenti tematiche di identità, memoria e territorio, espresse attraverso una dimensione multisensoriale, sviluppata sia nello spazio tridimensionale e tangibile nelle texture materiche, sia sonoramente nei sofisticati ambienti da ascoltare, curati dall’antropologo e sound designer americano
Steven Feld.
Abo rintraccia la chiave di lettura nella sottrazione strategica dell’immaginario alla logica del doppio “
estremismo” tra “
globalizzazione e tribalizzazione”: globalizzazione dell’era telematica che tende ad appiattire il carattere identitario, a spersonalizzare le esistenze; e la risposta a volte reazionaria dei nazionalismi, della stanzialità. Ryan le re-intepreta da straniera (bianca) nella realtà africana, ma soprattutto in veste di artista che sceglie deliberatamente la “
diaspora” come non-luogo dell’opera, un
altrove smaterializzato che rende le sue installazioni perfettamente flessibili a qualsiasi luogo le accolga.
Le questioni etniche, ecologiche e ambientali sono approfondite in mostra: accanto a numerose opere in ceramica, bronzo e materiali riciclati, colpiscono i grandi progetti come
Castaways, l’installazione in progress esposta lo scorso anno al Whitworth Museum di Manchester, duemila piccoli collage, ovvero
informazione ambientale raccolta sulle coste dell’Africa occidentale, arricchita dal film
Dove l’acqua tocca il suolo, meditazione sull’Atlantico, luogo significativo nella storia della schiavizzazione e dell’incontro;
Topographies of the Dark, l’inedito gruppo di dipinti-sculture in grande scala, che poi risuonano nelle improvvisazioni musicali del gruppo afro-americano Accra Trane Station;
In Transitu, la toccante installazione di federe ricamate e raccontate dalle donne del popolo, nella tappa salentina di
Intramoenia Extra Art; la
Courting chair, realizzata in Umbria per quest’occasione.
Piccole o grandi “soste” che caratterizzano il viaggio infinito dell’artista e dell’umanità stessa, sintetizzato nella scelta del processo del ready made, secondo un’operazione occidentale: eliminazione del contesto abitudinario per uno del tutto nuovo, sostituzione del clima vitalistico della pittura africana con un codice alto, esaltato da tecniche di rappresentazione modernissime.