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06
marzo 2014
Gianni, “scattastorie” contemporaneo
altrecittà
Palazzo Ducale di Genova omaggia un pilastro dell'istantanea: Gianni Berengo Gardin. Un divoratore di pellicola decisivo nello sviluppo della cultura visiva italica, ma che ancora oggi non smette di studiare. E di imparare. Animo coinvolto e coinvolgente, il suo obbiettivo ha fissato un po' di tutto, dalla spensieratezza al lavoro, dalle glorie agli aspetti meno nobili della nostra società
È un orgoglio della fotografia nazionale, con quasi ottantaquattro primavere sulle spalle e la certezza che l’importante sia «prima pensare e poi scattare». Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 1930) è l’uomo che si presenta con la sua Leica in spalla anche quando l’occasione è di quelle piuttosto formali, tipo la presentazione di un’antologica interamente a lui dedicata, “Gianni Berengo Gardin – Storie di un fotografo”, al Palazzo Ducale di Genova fino all’otto giugno. Attivista duro e puro del mezzo fotografico, che professa l’uso documentaristico dell’istantanea prima di ogni altra sua funzione e infila l’estetica nella lista delle conseguenze possibili; ribelle anche nei soggetti più innocui e poetici, come quei baci che afferma aver iniziato ad immortalare nel ’54 «quasi per denuncia» contro una legge italiana che li vietava in pubblico. Lui, appassionato a tal punto da divenire convinto comunista quando la professione l’ha portato a conoscere gli operai dell’Alfa Romeo.
«Berengo Gardin non ha mai lavorato per immagini, ha sempre raccontato storie», spiega il curatore della mostra Denis Curti, asserzione identificata da un allestimento scorrevole che all’ordine cronologico preferisce la divisione in sezioni tematiche, corrispondenti ad alcune delle questioni sociali e culturali affrontate dal fotografo nella sua lunga carriera. Una selezione di circa duecento immagini tra privato e collettività, evidenze e questioni di dettagli, sempre riportate su pellicola con intenzionale sincerità (di scene costruite ad “arte” solo «cinque su un totale di un milione e mezzo di fotografie», confessa lo stesso Berengo Gardin); senza mai provare gusto per le paternali, nemmeno quando il reportage è Morire di classe, sfacciata denuncia con cui il grande pubblico ha conosciuto le condizioni di vita tutt’altro che rosee all’interno dei manicomi.
Arriva a Milano nel 1958 e subito la città diviene l’oggetto preferito dei suoi scatti. Ma la sua Milano fine anni Cinquanta non ha il fascino eccentrico e un po’ noir che le aveva dato l’amico e maestro Ugo Mulas all’inizio del decennio. Per Berengo Gardin raccontare le dinamiche all’ombra della madonnina è girare con la convinzione del passante e l’intenzione di posare lo sguardo sul vivere tutti i giorni, su una quotidianità forse meno accattivante dei simboli noti, ma molto più narrativa. Cosicché oggi quei fotogrammi dicono tanto e idealizzano poco, descrivendo un’epoca per mezzo di cartelloni pubblicitari, oggetti di consumo e passanti consapevoli trasformati in inconsapevoli icone, dalla signora impegnata a spingere una carrozzina all’uomo al volante della sua Bianchina.
La sezione intitolata all’ex metropoli da bere è quella che meglio sottolinea un punto sostanziale dell’attività di Berengo Gardin: a dispetto di un’evoluzione (per alcuni involuzione?) sociale che ha percorso due gradini alla volta, nella riga di scatti milanesi il tempo – quello del fotografo – tocca gli anni Duemila senza sbalzi, somatizzando una sistemica espressiva pressoché invariata e una metodica da sessant’anni attaccata all’analogico e al bianco e nero. Contestualmente la sfida per chi osserva si fa più dura, poiché a “formula uniformante” data (e ovviamente senza barare, mettendo perciò da parte la disposizione cronologica offerta in esposizione) si richiede maggiore attenzione verso i particolari qualificanti, inclusi quelli ideologicamente distintivi che il grande fotografo ha fissato nelle bandiere raffiguranti i volti di Stalin e Mao Tse Tung di un primo maggio anni Settanta, in quelle con lo stemma di Alleanza Nazionale nei Novanta o dell’Inter campione d’Italia nei Sessanta.
Altro luogo fondamentale è Venezia, capitolo che offre un paio di scatti del ’60 una spanna sopra gli altri per costruzione e capacità descrittiva. L’ambientazione è quella di un vaporetto, un istante di viaggio descritto e bloccato dall’obbiettivo di Berengo Gardin con una complicata strutturazione di piani visivi, optando per un gioco di riflessi che moltiplica l’unitarietà dello scatto; chapeau per un’immagine – «battuta da Christie’s a 28mila euro» parola di fotografo – eccellente nella sua tendenza documentativa, concettuale ed estetizzante in un solo scatto. E appena prima di uscire dall’area “lagunare” l’occhio cade su una piazza San Marco imbiancata, ritratto che abbandona un attimo il carattere di testimonianza per esprimere la decoratività totale dei suoi elementi, dalla neve compatta all’arcata digradante, dai piccioni in volo alla persona che corre mimetizzandosi al loro interno. Bellezza pura.
Infine Genova, che non poteva mancare in quanto città ospitante di questa terza tappa dell’antologica (le prime due sono state Venezia e Milano). Tra gli scatti che la rappresentano segnaliamo quelli di fine anni Ottanta, malinconici (oggi, che non molto sembra essersi modificato/sviluppato da allora) e significativi nel loro intessere una dimensione di operosità globale che comprende l’Ansaldo, i container disposti in porto come piccoli mattoncini Lego, i lavoratori impegnati nella riqualifica del Porto Antico e pure alcuni esercizi “istituzionali” dei caruggi, come la barberia art decò di vico Caprettari (ancora esistente) o le insegne della storica confetteria Romanengo.
Ma per tante storie già raccontate altrettante saranno ancora da raccontare. Ovviamente al suono inconfondibile di un clic. Dai Gianni, pensaci tu.