Che la Sicilia sia bella non è Exibart a dovervelo dire. Però vi possiamo fare questa domanda: avete mai visitato le grotte dell’Addaura, nel palermitano? Se la risposta è no siete capitati tra le righe giuste, la premiata agenzia viaggi Luca Trevisani (Verona, 1979), che ovviamente è un’impresa 2.0, le porta direttamente da voi. Anche se siete dall’altra parte del Mediterraneo, giusto a qualche centinaio di chilometri di distanza. Facciamo a Genova. Se passate di lì, e desiderate calarvi in un tour siciliano mangiando panissa e frisceu, non dovete far altro che rivolgervi alla galleria Pinksummer. Scadenza il 25 gennaio 2019.
Addaura e Pinksummer, luoghi specifici che mutatis mutandis rispondono non meno specificamente alle coordinate geografiche con cui l’artista veronese ha titolato la personale, 38° 11′ 13.32″ N 13° 21′ 4.44″ E / 44°24’27.4″N 8°55’60.0″E, a loro volta tradotte in un’ipnotica traccia sonora integrativa a tutto il progetto. Patti chiari, il primo aut aut di questo evento dal nome poco affabile è una testualmente camaleontica, quanto sacrale, identità dei siti. Sicché anche l’atto pratico di prendere un simbolo di Sicilia per farlo migrare verso la Lanterna non cade sulla decontestualizzazione, piuttosto sulla coesione spaziale, un gemellaggio operato in maniera molto concreta, molto tecnica e molto empatica. Insomma, alla Trevisani. Secondo aut aut è trovarsi a parlare con un artista convinto di somigliare ad un’agenzia viaggi; che scherzandoci su dice «Invece di andare in giro con l’ombrellino ho portato le grotte qui», rivolgendosi verso quell’ammucchiata di figure umane che tracciate sulle pareti della grotta hanno creato il mito dell’Addaura, ambiente per la cronaca legalmente inaccessibile da parecchi anni. Nella grotta, guidati da un trascinatore di folle d’eccezione. E non è ancora niente.
Luca Trevisani – 38° 11′ 13.32″ N 13° 21′ 4.44″ E / 44°24’27.4″N 8°55’60.0″E – installation view – courtesy l’artista e Pinksummer – photo Alice Moschin
Perché la storia dell’agenzia è stupenda, ma non aspettatevi una guida istituzionale, ché Trevisani non ricostruisce nulla e non de-localizza un bel niente. Intercetta un luogo astraendone il succo mitico e semmai lo costruisce, ex-novo, creando una nuova espansione per quelle figure umane/animali che riporta come un’ossessione non ossessiva nell’infilata di grosse tele viranti dal bruno-seppia al blu, cianotipi ottenuti con l’uso esclusivo di sostanze naturali – processo da lui stesso inquadrato come «Una tecnica molto hipster» – tratti da un negativo digitale, a sua volta preso dal calco originale anni Cinquanta dei graffiti. Mito antico per una nuova mitologia contemporanea, che nasce nella commistione tecnica tra digitale e analogico puro, in mezzo alle sfocature inflitte all’arcaico testo formale, alla presunta attivazione di quelle movenze congelate in cui l’artista è caduto sperimentando la policromia RGB, tre tele con collocazione ad hoc dove l’impreciso sovrapporre fasi di lavorazione ha prodotto un’involontaria illusione di movimento.
Bella prova per il nostro “hipster”, qui più che mai convincente nell’allineare parte emotiva e parte concettuale per farne una cifra contenutistica più che stilistica. Lui che ristampando più e più volte quella stessa immagine lavora da contemporaneo capace di tirarsi fuori dall’epoca della riproducibilità tecnica, d’inibire la funzione “copia e incolla” per riavvicinarsi geneticamente a quei graffiti, lasciando che gli “inconvenienti” tecnici si assimilino e s’impastino al risultato finale. Questo per forza di cose sarà una soluzione visiva unica e particolareggiata, che tra l’impressione viva di quelle ataviche silhouette ingloba foglie di varie essenze – “lavoravo all’aperto” racconta – o l’ombra reticolare proiettata dal cancello del giardino, o ancora le gocce d’acqua piovute come non ci fosse un domani. Imprevisti e consequenzialità, l’operazione di Trevisani è “vittima” degli eventi, come della complessa gestione di stampe che, date le dimensioni importanti, a loro volta hanno implicato un numero di passaggi superiori alla media, «Ne ho fatti ben sette, ovviamente con un foglio piccolo non ci sarebbero stati problemi» racconta. E quando le dimensioni contano minano la tenuta della carta obbligando all’applicazione su tela, tra strappi che sembrano medaglie al merito e il ricorso alla carta all’acqua da restauro per i casi più disperati.
Luca Trevisani – 38° 11′ 13.32″ N 13° 21′ 4.44″ E / 44°24’27.4″N 8°55’60.0″E – installation view – courtesy l’artista e Pinksummer – photo Alice Moschin
Interessante vedere Trevisani risolvere il restauro dell’arte contemporanea divenendo restauratore di sé stesso, prima che l’opera sia conclusa. Lo è ancora di più trovarlo interprete dell’azione di restauro come annotazione del proprio passaggio, supporto narrativo fondamentale alla costruzione della sua pseudo-grotta, la quale in fondo non è che l’inesorabile mistificazione ambientale di un artista con licenza di produrre realtà partendo dal riflesso di questa. E non tanto perché l’artista basa l’intera personale sul negativo di un calco, a sua volta fac-simile del vero, quanto perché allestire lasciando giusto quei cinque centimetri tra tela e tela equivale a ricordare due cose: siamo comunque in una galleria e non in una vera grotta, quello che abbiamo davanti è una vera azione contemporanea, l’Addaura gira che ti rigira è altra cosa.
Il falso in arte è sempre un tema caldo, qui più che altro piacevolmente tiepido. Nell’uso che ne fa Trevisani – peraltro non pienamente convinto dell’autenticità storica di tutte le incisioni – è per funzionalità più simile ad una bugia bianca, attuatore di una linea empatica, un collegamento con chi in quei luoghi c’è passato prima di lui. Un mezzo giustificato dal fine, simulazione d’antichità con un mix di resina e ruggine su cladodi (in linguaggio meno aulico le “pale”) di fico d’india utilizzati come calchi, materializzando sculture in cui le incisioni di altri illustri ignoti – stavolta solo più contemporanei – dialogano apertamente con quelle riportate a parete. Arte che si avvale della formula “chilometro zero”: le “matrici” provengono dalla spiaggia sottostante l’Addaura, detta Acapulco. «Mi sembrano dei parabordi» racconta l’artista, noi le inquadriamo a mo’ di armi preistoriche, stile nunchaku. Comunque sia il tempo a disposizione è finito, è ora di uscire dalla grotta. E si ritorna al futuro.
Andrea Rossetti