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I MILLE MONDI DI MCCURRY

di - 19 Dicembre 2011
Il Museo di Arte Contemporanea di Roma celebra in una spettacolare mostra, fino al 29 aprile 2012, il genio di Steve McCurry, un uomo che dalla metà degli anni ’80 in avanti si è guadagnato stima e rispetto mondiale nella fotografia e nel foto giornalismo, vincendo tutti i massimi premi del campo.
Presente all’inaugurazione, il 3 dicembre 2011, è stato entusiasta di mostrare i suoi ultimi scatti fatti in Italia, un paese che ama moltissimo, proprio nel 150° anno dall’Unità.
Ci troviamo nella particolarissima area espositiva della Pelanda (MACRO Testaccio), in cui Fabio Novembre, che ha curato e allestito la mostra,  ha saputo creare abilmente un percorso intuitivo cercando di non abbinare solo luoghi e epoche, ma soprattutto persone e sentimenti contrastanti.
Sono stati costruiti tanti emisferi metallici collegati tra loro, che creano degli ambienti “ad igloo”, al cui interno sono collocate, in grande formato, le fotografie.
Lo spettatore si trova in uno ambiente buio in cui le luci sono rivolte solo ai veri protagonisti: gli scatti di McCurry, vere e proprie calamite che catturano lo sguardo di chiunque si avvicini ad esse. Gli occhi di un bambino indiano incrociano quelli della celebre ragazza afgana scattata dal fotografo americano nel 1984, divenuta poi icona quando fu pubblicata sulla rivista National Geographic. Lo spazio è quasi immersivo e gli occhi delle persone ritratte sembrano osservare il pubblico da molteplici direzioni e  le fotografie parlano sia frontalmentente che dall’alto,  creando così una sorta di piacevole spaesamento per chi cammina fra i “pezzi di mondo” catturati dal fotografo americano. Le oltre 200 fotografie non sono commentate, sappiamo solo dove e quando sono state scattate, viene lasciato quindi allo spettatore un incredibile spazio di interpretazione, che potrebbe però non risultare di facile lettura per i non appassionati. “Una fotografia è buona quando parla a chi la guarda…”dichiara McCurry. Ed è proprio così: i suoi lavori non solo parlano allo spettatore, lo emozionano profondamente.

Quando guardiamo le sue foto infatti notiamo i colori che risaltano violenti agli occhi, illustrandoci i riti e le culture tradizionali dei paesi che visita, ma in realtà la sua priorità è il messaggio, ciò che nascondono i visi stanchi, terrorizzati o felici di bambini, dei loro genitori, degli anziani.
I suoi progetti sono senz’altro spinti dalla curiosità personale, ma molto di più dalla voglia di raccontare storie. Concentrandosi senza sosta, ha viaggiato anche fino a 300 giorni all’anno, e lo ha fatto senza timore, in prima linea nelle guerre più drammatiche degli ultimi trenta anni, per descrivere chi, inerme, ne subisce le terribili conseguenze e le tracce che rimangono dentro quelli che lui definisce i “non combattenti”. Ci mostra così, nel modo più crudo e realistico possibile l’uomo, nella sua evoluzione peggiore: la guerra.
Tornando alla selezione delle sue “fotografie italiane”, in un’intervista dichiara: “In Italia mi piace esplorare il vecchio e il nuovo e vedere come si intersecano”. Questo suo sentimento si percepisce chiaramente nei soggetti che ritrae, che possono sembrare ai nostri occhi un po’ stereotipati, ma descrivono esattamente il nostro paese, dalle sue emozionanti processioni religiose lungo le tortuose vie dei piccoli centri del Sud o dell’Umbria, alle particolari tombe monumentali del Verano, luogo da cui ammette di essere stato profondamente ammaliato.
Anche in altri lavori di McCurry troviamo, specialmente in oriente, culture tradizionali e modernitĂ  dei paesaggi urbani che contrastano in modo affascinante, come nella sua Kyoto del 2012.
L’intento primario su cui si focalizza McCurry è superare le barriere linguistiche e culturali dimostrando alla popolazione mondiale che alla base non siamo poi tanto dissimili.
Sezione molto interessante è quella dedicata al tema del gioco.
Bambini in India che si tuffano nell’acqua blu cobalto accostati ad altri nel deserto della Mauritania che sono invece costretti a tuffarsi nelle dune dorate oppure monaci tibetani di tutte le età che calciano un pallone esattamente identico a quello di altri in un villaggio di pescatori.
Notiamo in tutti lo stesso sorriso, e ci dona speranza, facendoci riprendere fiato.

Fiato perché molte immagini precedenti raffigurano piccoli soldati, molti sono sofferenti, ma altrettanti hanno l’odio negli occhi mentre abbracciano i loro fucili. Queste immagini, soprattutto afghane, ci mostrano una realtà pericolosa e terrificante, in cui bambini di 7-10 anni si approcciano alla via con il rancore dei loro padri nel cuore.
Il percorso espositivo ci saluta, all’interno dell’ultima sala, con un messaggio molto importante…
Vale quindi la pena viaggiare all’interno della mostra lasciandosi guidare dagli occhi di questo straordinario artista.
a cura di giulia olivetti

*foto in alto; Geisha nella metropolitana, Tokyo, Giappone, 2008

[exibart]

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