29 novembre 2011

INTERVISTA A KIT CRAIG

 
Abbiamo incontrato Kit Craig (Londra 1980), artista, rigoroso, attento ai minimi dettagli, alla sua prima personale italiana: Nine Men’s Morris, alla Galleria Maria Grazia del Prete fino al 10 dicembre, e ci racconta la sua ricerca solida e profonda che va avanti da anni...

di

L.P. Questa è la tua prima mostra personale, non solo romana, ma anche italiana, per la quale tua hai creato appositamente un ciclo di opere. Si potrebbe pensare che esiste un collegamento, dunque, tra le opere esposte e il contesto romano?

K.C. Onestamente no, questa è la mia prima volta in Italia e non potrei dire di aver concepito le mie opere pensando a questo paese. È vero, però, che ho realizzato i miei lavori appositamente per lo spazio espositivo: La galleria Maria Grazia del Prete. Infatti, anche se non lo avevo mai visitato fino ad ora, ho lavorato in stretto contatto con i galleristi che mi hanno inviato le fotografie, le piantine e le planimetrie dello spazio. Per cui le mie opere sono pensate appositamente per quello.
 

Precedentemente hai focalizzato la tua attenzione sulla parola, in questo caso si può dire lo stesso oppure c’è stato un cambiamento?

In generale tutto il mio lavoro è sulla comunicazione, cerco di andare oltre le parole, per trovare un significato nelle cose.
Il linguaggio è un modo, come altri, che utilizzo per creare concetti. Il mio scopo, in un certo senso, è quello di rompere la logica, scomporla in tutte le sue parti, per tirarne fuori le singole componenti.
 

Puoi spiegarmi qual è stato il punto di partenza per le opere esposte in mostra? A ha che fare con il titolo Nine Men’s Morris?

Ebbene si, per creare le opere qui esposte sono partito dal gioco di società, conosciuto in Italia come filetto o tris. L’idea è quella di prendere il via proprio dallo spostamento degli oggetti per creare un senso, quindi per creare qualcosa di nuovo.
Si potrebbe anche mettere un po’ in relazione con il genere della “natura morta”, che nello specifico, qui è rappresentato dalla frutta secca che è una metafora delle pedine nel gioco da tavolo. In pratica gli oggetti si spostano per trovare un significato specifico, ma non è detto che questo si affermi sempre.
 

Il tavolo al centro della galleria, in particolare, cosa rappresenta?

Quest’opera effettivamente costituisce una sorta di sintesi del progetto, e, nello stesso tempo, vuole proporsi come un modello per la galleria, un modo per articolare lo spazio. …che poi è stato anche seguito.
 

Di fronte al tavolo, un foglio bianco?

Si, ho voluto offrire un punto di osservazione privilegiato, amo giocare con la geometria e con i suoi elementi costitutivi, linee sia reali, sia immaginarie.
 

A proposito di geometria, che valore dai alla prospettiva? Tu che in passato hai anche dedicato una tua opera The Offer Up, 2010 a Filippo Brunelleschi? 

Sebbene il rapporto con la tradizione sia sempre importante nel mio lavoro, esso non è rimasto uguale a se stesso. Infatti si può dire che in questa serie di opere io istituisco un rapporto dialettico con la tradizione, e in particolare, con la prospettiva. Infatti essa è da me intesa come una traiettoria continuamente rimossa o deviata.
 

Tutte le opere sono collegate, puoi parlarci dell’allestimento?

Effettivamente tutto lo spazio è ravvivato da un gioco di rimandi e riflessi che le opere istituiscono tra loro in un muto dialogo. Gli elementi magari sono gli stessi, però cambiano, per colore, dimensione, numero.
 

Un’ultima domanda.. guardando la planimetria della galleria, a dispetto del numero di opere compaiono solo tre titoli? Che valore hanno per te e come si riallaccia questo all’allestimento?
 
Pensandoci, forse questa sintesi è stata un escamotage per chiarire ancor di più l’idea di opera d’arte totale che mi ero fatto per questa mostra. I titoli per me sono molto importanti, perché conferiscono un valore aggiunto alle opere, che nel mio caso spesso sono date da un insieme di diversi lavori.

a cura di ludovica palmieri

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