Categorie: altrecittà

Intervista a Paolo Grassino

di - 16 Settembre 2011

La tua ricerca muove dai concetti di realtà e sogno, di possibilità e impossibilità dell’esistenza, di riflessione e analisi sulla società attuale, intesa come territorio magmatico, incerto e metamorfico. Partendo da questi moventi come si sviluppa la tua indagine sull’arte?

La mia ricerca sull’arte parte da riflessioni sulle condizioni dell’esistere, sull’ ingannevole separazione tra interno ed esterno, sull’analogia tra la nostra natura interna e quella esterna. Il sogno, o meglio, l’irrazionale, l’illogico, diventano interpreti per affrontare tematiche di un’oggettività che non dovrebbe esistere, anche se è sempre legata al credibile, alle realtà note.

La materia intesa come linguaggio, forma e struttura, è un elemento fondamentale nel tuo lavoro. Quanto è reale e quanto è “simbolica” nelle tue opere la materia?

Cerco un’intesa. Rivolgo delle domande al materiale o all’oggetto. Ricevo delle risposte che naturalmente non sono sempre traducibili in parole. Tali risposte sono parole o immagini altre, a volte prive di logica. Il difficile è proprio questo: lasciare che l’illogico si sveli, rispettando e conservando, quindi, ciò che non è chiaro. Il nostro pensiero tende sempre a razionalizzare, a rendere tutto più comprensibile, più sopportabile, più banale.

Il corpo umano e gli animali, figure che sin dai tuoi esordi hai investigato, costruito e decostruito, quali significati assumono nei tuoi progetti?

Hanno un significato, per me, solo se si incontrano o scontrano con un’oggetto, con un corpo estraneo. Il colloquio tra la figura umana o animale con l’oggetto, con il manufatto, crea una sorta di narrativa. Non è una ricerca sul corpo. Ciò che maggiormente mi interessa è l’attimo dell’incontro. Il primo sguardo di due parti estranee che attraverso il loro incontro diventano un corpo unico e inseparabile.
                               
Il “fantasma della storia” è un altro dei tuoi “temi perenni”, penso al recente Lavoro rende liberi, ma anche a Lode a t.t.. Che significato assume la storia nelle tue opere?

Naturalmente la storia ha notevole importanza, ma più che altro certi episodi della storia. Mi interessano alcune vicende che si prolungano nel tempo fino a raggiungere il nostro contemporaneo. Certe parti della storia non sono concluse ma solo convertite in altre vicende. Credo che la storia sia un mezzo per parlare dell’oggi, per rendere più traducibile il nostro quotidiano.

Nei tuoi lavori utilizzi la scultura come punto di partenza per poi spingerti verso progetti istallativi, spesso di grandi dimensioni, in cui si rintracciano esperienze di sintesi tra differenti linguaggi e discipline, come ne I topi ballano o in Armilla. Ci racconti di queste tue sperimentazioni?

Non mi sento propriamente uno scultore. Anche quando realizzo delle figure in fusione di alluminio, che potrebbe sembrare un’espressione legata alla tradizione della scultura, le intendo sempre come delle installazioni legate al contesto circostante. Condividere con molte persone la realizzazione di progetti installativi di grandi dimensioni, coinvolgendo edifici o tratti di strada, allontana l’idea che l’opera appartenga all’artista. Molte volte infatti, davanti a questi interventi, mi sento più spettatore che autore.      
                                   

Recentemente hai rifiutato l’invito alla 54° Biennale di Venezia. Cos’è accaduto e perché hai preso questa decisione?

E’ stata una decisione difficile. Ho declinato l’invito per una mancanza totale da parte del curatore e dall’ufficio organizzativo di professionalità e di rispetto per gli artisti invitati. La Biennale di Venezia è pur sempre la regina delle mostre e credo che sia una manifestazione che vada ancora rispettata.

a cura di alessandro demma

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