Categorie: altrecittà

LA ISLA BONITA?

di - 9 Settembre 2011
Bushwick è un quartiere popolare dove le abitazioni sono basse e i fili elettrici, in alcuni punti, corrono ancora aerei tra un caseggiato e l’altro andandosi a raggrumare ai lati delle case.

Qui dovrebbe, in teoria, essere sorta una nuova Brooklyn, a pochi isolati da Williamsburg, cuore pulsante del neighborhood dove i prezzi degli affitti equivalgono ormai a quelli in uso a Manhattan, con una sola piccola differenza: che comunque non è Manhattan.

Wagmag è la Bibbia metropolitana per chi cerca l’arte a Brooklyn, un mensile web sempre aggiornato, non troppo patinato, ma con una serie di indicazioni dettagliate su tutto quello che succede tra Red Hook, Greenpoint, Dumbo, il sobborgo-bene di Park Slope, a dir la verità quasi deserto di gallerie o circoli per artisti e, appunto, Bushwick e Williamsburg.

Sotto un certo punto di vista Brooklyn, a parte alcune zone prettamente residenziali, è ancora una piccola frontiera, la dimostrazione evidente che l’arte è si vero che la si può produrre ovunque e specie nei luoghi ai bordi della borghesia, ma che i generi non sono spesso quelli che ci si aspetterebbe da una sorta di avanguardia underground, sperimentale, ma fanno capolino ad un mercato, seppur minore nei prezzi e nel prestigio, che non tralascia le dinamiche economiche da galleria. Ovviamente poi vi sono anche seminterrati e bar alle cui pareti si offrono i prodotti pittorici della fauna locale, ma questa è un’altra storia che si ripete in qualsiasi luogo del mondo. Essere a Brooklyn significa addentrarsi nelle dinamiche della gioventù, in senso metaforico, dove si sbaglia spazio e strada, dove non è assicurata una continuità nella vita delle gallerie, dove c’è una sorta di humus da plasmare e, talvolta, da importare a qualche fermata di metropolitana nella New York che si mostra al mondo.

È bene dunque attraversare in qualche modo l’East River e raggiungere Chelsea per fare qualche riflessione, non tanto sull’originalità o sulla bellezza dei prodotti artistici della Grande Mela, quanto sull’importanza dell’apparenza, sulla possibilità assolutamente riscontrabile che spesso a fare l’opera sia anche la cornice.

Una questione molto americana, sicuramente, ma dalla quale pare l’Italia, con i suoi nuovi spazi e nuovi giovani, abbia ancora molto da imparare. Ora, non si sta mettendo l’accento sullo svilire l’opera a favore del contenitore, ma sull’interesse a promuovere un’estetica esterna più forte, spesso anche nella gestione del puro spazio della galleria, certamente lasciandone sopravvivere le peculiarità. Sotto un profilo più critico ci sono comunque da tenere presenti alcuni spazi per il loro appeal e per alcune scelte degne di nota, tra cui la galleria Murray Guy che ha da poco presentato Vision is elastic. Thought is elastic, collettiva in cui le curatrici Zoe Leonard e Moyra Davey, non a caso due artiste, hanno cercato di elaborare un meta-discorso sul potere delle immagini e delle parole in fotografia dopo la riproducibilità dell’opera d’arte, dopo il concetto e dopo la foto di moda, con conseguenza che a tratti l’esposizione poteva sembrare una sorta di bi-personale delle curatrici.

E poi c’è la Jim Kempner Fine Art, che di certo non si contraddistingue per una spiccata tendenza all’avanscoperta ma che ha messo in scena mostre di una certa acutezza e intelligenza. Recentemente è stata la volta di Licked sucked Stacked stuck, una storia della scultura contemporanea attraverso la pasticceria: l’artista Paul Shore e la storica Nicole Root, durante una discussione intorno alla retrospettiva di Richard Serra al MoMA, immaginarono un ipotetico rapporto tra la scultura e le caramelle. Da un primo suggerimento, e dal remake dell’ellissi monumentale di Serra realizzato con il Mou, sono venuti alla luce, perlustrando negozi di dolciumi, gli emblemi minimalisti di Donald Judd, le forme di Louise Bourgeois, Jeff Koons e Haim Steinbach.

Ne è uscita una mostra che aveva il tono di un divertissement intelligente, minima, fatta di piccolissime sculture e fotografie, in un parallelo efficace tra il monumentalismo il suo ipotetico reverse nell’accartocciarsi e liquefarsi attraverso effimeri materiali per dolci.

Da Marc Jancou, Slawomir Elsner presenta la sua personale “Raccolta di Immagini”, una riflessione che interessa da vicino l’idea di un’osservazione voyeuristica. Strappate nei punti clou, l’artista propone una serie di dipinti a pastello su carta che riproducono scatti pornografici presi da riviste erotiche degli anni settanta; il tratto leggero della matita colorata, l’attenzione al dettaglio dell’immagine è la pelle di questa superficie che al centro scivola nel baratro dello scabroso, una rivelazione che non ci appare ma che resta sulla soglia di un’immaginazione che sovviene senza troppi sforzi.

La galleria Leslie Tonkonow, dall’inizio dell’anno è divenuta invece la piattaforma di base della stella nascente Laurel Nakadate, una personale, Only the lonely, al PS1 lunga quasi 7 mesi, da gennaio ad agosto! La giovane fotografa e videoartista texana presenta qui il progetto 365 Days: A calalogue of tears, un anno di scatti dove la solitudine, le lacrime e le smorfie fanno da contorno all’universo dell’artista, sempre in bilico tra esibizionismo, nell’esuberanza di azioni che richiamano una scoperta della sessualità vissuta in maniera quasi infantile sotto gli occhi perplessi degli adulti, un gioco da Lolita che mette in scena la moltitudine degli stereotipi della pornografia da webcam dei teenager.

Una serie di riflessioni compaiono all’orizzonte di Chelsea, prima tra tutte quella che la fotografia è probabilmente il trend su cui si assesterà il mercato nei prossimi mesi, per lo meno negli Stati Uniti e, non in secondo luogo, che la cura per il dettaglio spesso ripaga anche delle insoddisfazioni rispetto ad una tensione che, tranne in alcune felici eccezioni, non sembra scuotere in nulla il panorama newyorkese.

a cura di matteo bergamini

[exibart]

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