Non è frequente che una mostra di opere provenienti da una sola collezione sia interessante e significativa, anche quando si parla delle più importanti del mondo per varietà e rigore. Ci sono però alcune eccezioni, tali da strappare entusiasmi non facili ma ponderati: è il caso di L’Illusione della luce, aperta fino al 31 dicembre a Palazzo Grassi di Venezia e magistralmente curata da Caroline Bourgeois con una selezione di 19 opere della collezione Pinault, senza mai cadere nell’apparente banalità del tema, che si presta a molteplici letture, né nella trappola dell’ovvietà legata alla necessaria presenza di alcuni artisti paradigmatici.
Una consapevolezza che appare evidente fin dall’esordio, non affidato ad uno skyscape di James Turrell bensì a D-N SF 12 PG VI (2012) dell’artista californiano Doug Wheeler, membro del movimento Light and Space, nato a Los Angeles nel 1960. Una caverna infinita di luce, talmente abbagliante da cancellare la percezione fisica dello spazio attraverso un effetto quasi ipnotico, a differenza di Turrell, che utilizza la luce per esaltare la dimensione geometrica dello spazio. Non razionalità e scienza ma materia e magia, viatici necessari per introdurre il visitatore alle sale del primo piano, dove la mostra si struttura secondo un percorso ineccepibile, introdotto da Marquee (2013) di Philippe Parreno, che consiste in una pensilina simile a quelle usate all’ingresso di nightclub e teatri di cabaret, posizionata sul mezzanino dello scalone.
Arrivati in cima, si passa attraverso Escalator (Rainbow Rain) (2007) di un’altra artista francese, Vidya Gastaldon: una sorta di tenda composta da decine di fili trasparenti che sostengono pezzetti di stoffa, lana e plastica, ispirata alle cerimonie indù. Dopo l’abbaglio di Wheeler, con la carezza di Gastaldon si interrompe la dimensione interattiva dell’opera per passare alla sua essenza mentale, esplorata attraverso un’ampia gamma semantica legata al tema della mostra.
Lux in absentia, con Le Salon Noir (1966) di Marcel Brodthaers, un’installazione legata alla morte del suo amico pittore Marcel Lecomte, ricordato da oggetti ed immagini sospese tra realtà e simbolo, che la curatrice mette opportunamente in relazione con Dead Boards n.11 (1976) di Gilbert & George, autoritratto intimo e malinconico della celebre coppia britannica. In una sorta di ritmico contrappunto dall’andamento quasi musicale, le sale del palazzo sono occupate alternativamente da opere e installazioni, senza nessun momento di stanchezza o ripetizione. Così, alla presenza di icone del modernismo come il Monument a V.Tatlin (1964) di Dan Flavin, risponde il lavoro della finlandese Eija-Liisa Athila Anna, Aki and God (1998), focalizzata sulle ossessioni di uno psicotico, mentre il monumentale e psichedelico Continuel Lumière Cylindre (1962-2012) dell’argentino Julio LeParc -forse una delle opere più suggestive dell’intera mostra – dialoga idealmente con Autoerotic Asphyxiation (2010) del vietnamita Dahn Vo, fulcro del percorso.
Nella sala centrale del piano nobile, sulle pareti velate da tende semitrasparenti di pizzo ricamato, l’artista espone una serie di immagini di ragazzi vietnamiti scattate da un militare americano, insieme ad una lettera scritta al proprio padre da un missionario francese condannato a morte, per invitarci a riflettere sul colonialismo, la religione e la sessualità, velati e svelati al pubblico.
Il rapporto tra potere e politica in un’ottica multiculturale ritorna sotto altre forme nella sala della marocchina Latifa Echakhch, dove l’alcol scioglie l’inchiostro blu delle pareti rivestite di carta carbone (A chaque stencil une révolution, 2007) mentre la camicia bianca e un mazzetto di gelsomini di Fantome (Jasmin) (2012) ricordano un venditore ambulante che l’artista vide a Beirut poco dopo le rivolte di piazza Tahrir. Anche il belga David Claerbout punta il dito contro l’occidente, nel video in 3D Oil workers (from the Shell company of Nigeria) returning home from work, caught in torrential rain (2013), che raffigura un gruppo di operai nigeriani catturati da una pioggia violentissima: immobili, osservano l’acqua scorrere sotto i loro piedi, in un continente sfruttato dal capitalismo e strangolato dalla siccità. Altrettanto forte è l’impatto provocato da Crossroads (1976) dell’americano Bruce Conner: un video in bianco e nero che riprende i test atomici sull’isola di Bikini, dove l’esplosione della bomba è accompagnata da una colonna sonora new age di Patrick Gleeson e Terry Riley, quasi a voler esorcizzare la più grande paura dell’umanità.
Dai valori etici e politici affidati alla luce si passa ad opere tautologiche e poetiche, come Untitled (Light Bulb) (1994-95) dell’americano Robert Whitman o Diàlogo (1980) dello spagnolo Antoni Muntadas, che si interrogano entrambe sull’essenza della luce artificiale. Le opere pittoriche presenti a palazzo Grassi sono declinazioni del monocromo chiaro o scuro: si passa dalle tele del texano Troy Brauntuch, che rivelano ad uno sguardo attento le sagome di oggetti immersi nell’oscurità più totale a White Aids (1993) del collettivo canadese General Idea, dove tele dal candore immacolato ospitano la parola Aids, a simboleggiare il silenzio che circonda ancora oggi questa malattia. Dal bianco si torna al bianco, dopo aver visitato una mostra da non perdere, sia per qualità di opere che per rigore installativo.