08 novembre 2015

LA PRODUZIONE TRASPARENTE

 
Due artisti, tre scrivanie, un ufficio abbandonato. Si parla di lavoro. In maniera quasi mistica e con la storia sullo sfondo. Ecco Contemporary Locus 9

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Marie Cool arriva a raccogliere una riga trasparente, appoggiata al piano verde di un tavolo rovesciato. Grazie a un gioco ottico provocato da un faretto posto poco lontano, in un grande capannone, all’estremità destra della scrivania si forma un perfetto quadrato di luce, che si riflette anche sul pavimento di linoleum. È questo il campo della prima azione dell’artista impegnata a Bergamo nella nona edizione di Contemporary Locus, che stavolta si confronta con il mondo produttivo. Ma a modo suo, con la misurazione o semplicemente “l’occupazione” di un piccolo spazio indefinito con un semplice gesto, in silenzio assoluto. Non è un gioco. È la prova di un’attività. 
Pochi secondi, forse un paio di minuti e tutto ritorna immobile. Marie Cool, algida e mistica, come lo sono i suoi recenti argomenti di studio, cambia postazione ma non materiale: il palco dell’azione è sempre il piano di una vecchia scrivania, nero. Il “lavoro”, stavolta, ha i crismi precisi e diabolici di un’operazione chirurgica: si dispongono, e poi si ricompongono, brandelli di scotch trasparente senza alcuna forma apparente: sono strisce che trovano una collocazione spaziale sul mobile, con l’artista che ne sonda ingombri, li tira a sé, li stende. Una volta finito questo disegno e liberato il tavolo, Cool restituisce all’area di lavoro la sua dimensione da ufficio, attraverso una misurazione con foglio A4: l’artista lo passa da una parte all’altra velocemente, ma lasciando allo sguardo il tempo di fare qualche conto: il tavolo ha un ingombro di una decina di fogli. Ne possiamo immaginare anche la dimensione in centimetri, volendo, come avrebbe fatto Georges Perec nei suoi Specie di spazi, dove la comparazione è, nell’ordine delle pagine (del libro) ossessiva, pungente. E come se attraverso la catalogazione si potesse riscrivere l’ordine originale della creazione del mondo, estendendola in potenza dal foglio al pianeta intero.
Marie Cool Fabio Balducci. Senza titolo. Riga di plastica, tavolo da ufficio, luce. 2010 dettaglio Courtesy gli artisti; Marcelle Alix, Paris; contemporary locus, Bergamo Ph. Mario Albergati

“Lo spazio di un foglio di carta (modello standardizzato internazionale, in uso presso le Amministrazioni, in vendita in tutte le cartolerie) misura 623,7 centimetriquadri. Bisogna scrivere un po’ più di sedici pagine per occupare un metro quadrato. Supponendo che il formato medio d’un libro sia di 21×29,7, disfacendo tutti i volumi stampati conservati alla Biblioteca Nazionale e disponendo accuratamente le pagine le une accanto alle altre, si potrebbe coprire interamente l’isola di Sant’Elena o il lago Trasimeno”, scrive l’autore francese. Non c’è nulla in comune con le azioni di Marie Cool e Fabio Balducci? Falso. C’è una tensione all’aspetto immateriale e allo stesso documentabile del lavoro, ma in entrambi i casi la scena è quasi illusoria: non porta a nulla “riempire” un metro quadro di pagine scritte, se non per un gusto infantile che ha a che fare con l’appropriazione dello spazio, l’abitare un luogo con il sé attraverso un atto che si confonde con il ludico, così come hanno valore nella descrizione della pratica del lavoro, ma non nel suo senso pratico, utilitaristico e di produzione, le azioni di Cool e Balducci. 
Che assumono invece la forma di gesti, rituali: sono possibilità anarchiche – come sono anarchici gli autori – che si danno a un luogo, l’ex area Tesmec di Curno (BG), dove la storia ha fatto il suo corso, lasciando scoperti i nervi di una produzione che oggi cerca il riscatto nella vita creativa. E anche se il risultato qui, tra nuove imprese e scuole di danza, studi di posa e grafiche, è notevole, resta il fatto che l’industria rispetto all’estrosità si era presa più spazio, e che ha lasciato gli strascichi di sé, con migliaia di metri quadrati vuoti, impossibili da riempire con i fogli di Perec, tutt’al più con una nuova Land Art. O con il silenzio di una rilettura della storia e dei concetti occidentali di occupazione. 
Marie Cool Fabio Balducci Senza titolo. Scotch, tavolo da ufficio. 2002 Courtesy gli artisti; Marcelle Alix, Paris; contemporary locus, Bergamo Ph. Mario Albergati

Anche per questo ci fa riflettere il progetto di Cool e Balducci: stavolta Contemporary Locus, oltre ad aver riscattato non solo un luogo “sociale” come lo sono stati il Monastero del Carmine, il Teatro Comunale o la Porta di Sant’Alessandro, entra nel nervo scoperto della produttività, entità astratta e così presente ai nostri giorni, quando sedotti dall’idea di crisi ci si affida anche alla prossimità della morte in cambio di qualche denaro: fallimento di qualsiasi utopia, e soprattutto di qualsiasi vita; finta protezione per aderire alla scala sociale, nel suo punto più basso. Mancata rivoluzione.
La rivoluzione, invece, Cool e Balducci l’hanno fatta occupando per otto ore, dal lunedì al venerdì, il secondo piano dell’edificio A dell’area, senza produrre, ma solo lavorando. Riflettendo in senso lato sull’attività dell’uomo per il proprio sostentamento di sé che spesso si è rivelata pratica fallimentare nella stessa creazione del sistema. È una preghiera quella di Marie Cool, sacerdotessa in stanze che non servono più, ma dentro il cui vuoto si percepisce l’onda della storia, mentre dall’esterno arrivano i rumori di chi continua a produrre. Lei, invece, qui accarezza i fantasmi di un fallimento, con vecchi strumenti oggi desueti, in un’atmosfera post-atomica che solo alcuni luoghi di quella strana “Padania” possono ricordare. 
In fondo, un altare: è una terza scrivania, il cui piano stavolta è in finto legno. Ed è allagato da uno strato d’acqua contenuto al centro dell’area solo attraverso quattro strisce di nastro adesivo, a fare da perimetro. Il liquido resta immobile, per la questione della tensione di superficie. Basterebbe uno scossone, forse nemmeno troppo forte, per aprire un varco e far defluire tutto il contenuto precario in un unico, violento, rivolo di libertà. 
Che sia ancora questo lo scopo dell’arte, nascosto dietro l’imbarbarimento meschino di una “scultura sociale” da far saltare in aria? 

Matteo Bergamini

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