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L’arte non è acqua. O si?

di - 22 Marzo 2005

Waiting for Water è un progetto “socialmente responsabile”. Hai scelto di affrontare un tema a sfondo sociale come quello delle “guerre per l’acqua”. E tu saei palestinese, con passaporto israeliano…
Quello dell’acqua è un problema globale, interessa la Palestina come tutto il mondo. Ma questa non è l’unica ragione per cui il progetto si può definire “socialmente responsabile”. Waiting for Water è concepito come un’operazione trasversale che coinvolge diversi ambiti del tessuto sociale: l’arte, la moda, la produzione e la comunicazione. Così, non dipendendo direttamente da nessuno di questi settori, diventa economicamente sostenibile grazie alla loro combinazione.

Un meccanismo economico e produttivo diverso da quello dell’arte…
Si, attraverso la realizzazione e la vendita degli abiti il messaggio di Waiting for Water viene diffuso non solo al pubblico dell’arte, ma a un target più eterogeneo, consentendo al progetto di autofinanziarsi, di circolare e di proseguire nel tempo la campagna di sensibilizzazione sul tema dell’acqua.

Vi saranno sviluppi realmente industriali considerando la tradizione formidabile di un territorio come il biellese per quanto riguarda il settore tessile?
Vorremmo creare a Biella un laboratorio di sartoria in cui coinvolgere donne immigrate nella produzione delle prossime collezioni Waiting for Water. Un atelier destinato a divenire permanente, autonomo.

La prima tappa, nel novembre scorso, prevedeva un intervento di land art. In cosa consisteva?
L’idea di sospendere un telo nero di tessuto in uno spazio pubblico -in mezzo al torrente Cervo di Biella- è nata dal bisogno di ricordare alle persone un problema importante come quello dell’acqua. Ho costruito questo muro nero per bloccare la vista abituale del paesaggio, per creare uno shock visivo.

E adesso la moda. Nasce la Water Collection, una linea di abiti creati con un materiale speciale…
Si, la collezione è realizzata interamente con il tessuto che costituiva il muro nell’installazione. E’ la seconda tappa del mio progetto…

Perché hai scelto di parlare di un tema “impegnato” proprio attraverso la moda?
Da quando ho iniziato a lavorare con la moda ho capito che i vestiti erano un mezzo straordinario per trasferire messaggi. Ho cominciato a esporre le mie creazioni nelle gallerie d’arte, nell’ambito di mostre collettive incentrate su temi sociali e politici. Ma a un certo punto mi sono reso conto che non era abbastanza. Dovevo uscire dallo spazio espositivo e coinvolgere la gente nel mio lavoro. Con il progetto Waiting for Water e con la Water Collection ho dato corpo a questa intenzione.

Che cos’è un abito?
E’ un linguaggio. E’ uno strumento ideale per veicolare contenuti, idee, riflessioni.

Quanto ha a che fare col concetto di confine, di barriera?
Un vestito può diventare una barriera, certo. Ma l’aspetto meraviglioso è che proprio attraverso gli abiti possiamo riuscire a rompere le barriere tra noi e gli altri. A creare comunicazione. Questo dipende esclusivamente dal nostro atteggiamento verso l’abito, dal tipo di rapporto che stabiliamo con esso.

Che tipo di abiti sono quelli della Water Collection? Unisex, total black e molte stringhe…
Attualmente la collezione è composta da abiti femminili, ma intendiamo realizzare anche una linea di accessori unisex.
A ispirare la collezione sono i portatori d’acqua di tutto il mondo. Attraverso la trazione dei cavi che tenevano sospeso il telo sul torrente ho tradotto la tensione e la sofferenza dei trasportatori, costretti a percorrere molti chilometri per condurre l’acqua dai pozzi alle loro abitazioni. La stessa tensione l’ho trasferita nei lacci dei vestiti: da un lato costituiscono un limite potenziale per i movimenti del corpo, dall’altro danno vita a un gioco che permette di modellare gli abiti su di sé.

I tuoi abiti sono territori aperti, un po’ self-made. Abiti da abitare, di cui la gente si appropria…
E’ la grande potenzialità della collezione: realizzare abiti flessibili e liberi sia dal punto di vista del corpo e della vestibilità, che dell’idea, dell’approccio mentale. Abiti che non rispondono necessariamente alle regole del mercato. Questo significa anche non concepire la donna come l’oggetto di una collezione moda, ma piuttosto come il soggetto che, attraverso un abito, “indossa” un messaggio sociale. Chi compra un capo diventa così parte integrante del progetto, una componente attiva.

Credi vada in questa direzione il futuro del fashion design?
Forse il futuro del design andrà proprio in questa direzione, ma dipende anche da un elemento strategico: in questa ottica è essenziale ragionare su quali siano i modi meno costosi con cui riciclare i materiali.

Ti senti più un artista o un fashion designer?
Sono un dress maker. Attraverso i vestiti che realizzo mi collego al concetto di riciclaggio e di trasformazione.

Presenti la collezione in uno spazio singolare, a Biella. Che tipo di posto è?
Banale Concept Store è uno spazio che cerca di mettere in comunicazione l’arte e la cultura con la moda e il design. Il nostro intervento vuole interpretarlo come un “negozio socialmente responsabile”.

Hai passato quattro mesi a Cittadellarte – Fondazione Michelangelo Pistoletto, per il residence internazionale di UNIDEE. Che esperienza è stata?
Straordinaria. La consiglierei senz’altro a chi che lavora nel campo dell’arte e del design: Cittadellarte è un posto che ti insegna a collaborare e a rapportarti con gli altri. E ad aprire gli occhi verso il mondo in modo più responsabile.

helga marsala


Walid Maw’ed / Sara Conforti – Water Collection
Presentazione collezione: 22 marzo 2005, h. 18.00
Biella, Banale Concept Store – Via Italia 22
info: +39 015355393; banaleconceptstore@libero.it
in collaborazione con Cittadellarte – Fondazione Pistoletto
info: tel.: +39 15 28400; sito Web:
www.cittadellarte.it


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