A Stoccolma è esplosa un’estate splendente di sole e di fioriture che ha reso ancora più piacevole la visita alla mostra “Morandi/Edmund de Waal” alla galleria Artipelag (fino al 1 ottobre).
La fondazione Artipelag parte dall’idea di Björn Jakobson di creare uno spazio-galleria per l’arte contemporanea privata che si è realizzata nel 2012 in un’architettura di Johan Nyrén, sulle pendici degradanti verso il mar Baltico di una delle tante isole della contea della Capitale svedese.
L’invenzione della mostra – a cura del direttore Bo Nilsson e di Chiara Lugli, esperta di Morandi, e di Giusi Vecchi dell’Istituzione Bologna Musei Museo Morandi – è stata di affiancare un nutrito numero di opere di Giorgio Morandi – nature morte, paesaggi e schizzi – alle opere di un bizzarro personaggio dell’arte inglese contemporanea, Edmundo de Waal.
L’elegante scrittore affabulante di “Un’eredità di avorio e ambra” si definisce in un video, con modestia e discrezione, un inglese, artista, artigiano, video maker, viaggiatore, scrittore e un creatore di porcellana. Deve la sua felicità al padre che a cinque anni gli consentì di seguire un laboratorio di modellato, dove iniziò il suo percorso di riflessione su volume, materia e colore, e a diciassette anni, a New York, ha incontrato l’opera di Morandi rimanendone profondamente colpito e coltivandone la conoscenza fino a questa sospirata conclusione.
Tony Oursler, M r> 0r, 2016. Courtesy the artist
Nella prima grande sala sono esposti i suoi oggetti di porcellana e alabastro dai colori bianco e grigio, nero e terra bruciata: sono allineati su mensole alle pareti ad altezze variabili o riuniti in gruppi generalmente lineari racchiusi immobili in bacheche di plexiglas trasparenti o opache che fluttuano evanescenti sospese nel vuoto o in teche poggiate a terra nelle quali luce ed ombra giocano fra loro: fra queste appare solo una algida natura morta di Morandi a suggerire il senso dell’operazione. Inseguendo un filo di scrittura perfettamente orizzontale, tracciato da de Waal con inchiostro nero e caratteri piccolissimi – un suo testo inglese su Morandi, la natura morta e le opere espressamente realizzate per questa mostra – che scorre ininterrotto sulle pareti a un metro e mezzo da terra, si entra nelle altre sale dove prevalgono le opere dell’autore bolognese; i rimandi reciproci diventano più complessi ed emozionanti: da un lato i volumi delle nature morte, quelli delle architetture nei paesaggi, le ombre degli schizzi a matita delle opere di Morandi e dall’altro le tante varianti delle installazioni scultoree di de Waal.
L’artista inglese nella scelta delle opere e nel progetto espositivo ha posto grande attenzione all’intorno, al bosco, ai riflessi del mare, alla luce variabile proveniente dalle vetrate, al cambiamento nelle percezione delle sue opere in relazione al trasformarsi della luce.
L’allestimento delle opere di Morandi – perlopiù di collezioni private in particolare svizzere oltre ai prestiti del museo Morandi di Bologna – è piuttosto tradizionale ma la scelta, storicamente esauriente, è particolarmente appropriata per stabilire il dialogo e il legame con l’opera contemporanea e per chiarire l’intuizione e l’ispirazione di de Waal sul senso e il ruolo dei termini volume, materia, luce, tempo, reiterazione, rivisitazione e in particolare della sua fascinazione per la modalità…again and again and again. Una proposta emozionante per dare più senso alla fascinazione che immancabilmente suscitano le opere morandiane.
Se il modello di Artipelag è il Louisiana Museum di Copenhagen, la galleria Thielska ha invece un fascino suo proprio e l’occasione della mostra “Artistic blossoming. Art Nouveau at Rörstrand 1895-1920” è un buon pretesto per visitare questo museo/abitazione di Ernest Thiel a Djurgården. Thiel fu un mecenate svedese che ebbe rapporti con alcuni dei più noti artisti del suo tempo – particolarmente intenso quello con Munch di cui è testimonianza nelle sale a lui dedicate – e raccolse in questa casa art nouveau-sezession molte opere di maestri nordici suoi contemporanei: Eugène Jansson, Carl Larsson, Bruno Liljefors, August Strindberg, Anders Zorn oltre qualche opera di Gauguin, Rodin e Lautrec. Ma, per una rovescio finanziario, nel 1922 questa proprietà passò allo stato svedese, che la trasformò in un museo, conservando gli arredi e le decorazioni originali, le sculture sparse nel giardino e il meglio della cultura scandinava moderna, caratterizzato da destabilizzanti vedute notturne, luci sospese, tramonti eterni, il giorno, la notte, figure efebiche e ritratti gravi.
La raccolta di ceramiche della manifattura svedese Rörstrand offre un ampio campionario di pezzi molto elaborati dell’inizio del secolo scorso quando l’industria si aprì agli artisti che proposero forme e modelli ispirati alla campagna svedese, all’immaginario giapponese e al gusto europeo. Uccelli svolazzanti, crostacei galleggianti, pesci ed alghe delle profondità sottomarine, arbusti, fiori, insetti un patrimonio inesauribile di forme e figure. Purtroppo l’allestimento è un po’ costipato e gli oggetti sembrano talmente perfetti e nuovi che al primo impatto pensi di essere entrato nell’art-book-shop del museo, ma basta soffermarsi per cogliere nei singoli pezzi un valore della manifattura, degli smalti e delle colorazioni che sarebbe ormai difficilmente riproducibile anche se l’imprinting appare molto più europeo che scandinavo.
La Galleria Magasin III fu fondata nel 1987 con l’obiettivo di riempire un vuoto nella diffusione dell’arte contemporanea presso il vasto pubblico ed è entrata nel numero delle principali istituzioni svedesi per l’arte contemporanea. Ora la galleria ospita due mostre molto diverse.
Se la mostra “M*r>0r” ha presentato le video installazioni dell’artista americano Tony Oursler – a cura di Richard Julin e Tessa Praun – diventato celebre per la commistione di proiezioni, suoni e sculture, di impatto completamente diverso è la mostra della svedese Gunnel Wåhlstrand – a cura di Bronwyn Griffith e David Neuman – di cui sono esposti i grandi paesaggi realizzati attraverso la tecnica dell’ink wash paintings. Il punto di partenza della costruzione di queste opere è una scatola di fotografie della sua famiglia che sono l’unica connessione che l‘artista svedese si ritrovò durante gli anni della sua crescita con la figura del padre. Per riempire il silenzio che circondava la sua vita e il vuoto dell’assenza cominciò a usare quelle foto ingrandendo i fotogrammi, scavando in ogni dettaglio e ricorrendo all’immaginazione per completare le lacune che si presentavano nelle immagini.
La grande scala (l’immagine sul manifesto della mostra è un opera di 157 x 218 centimetri) illude l’artista e il pubblico con una sensazione di presenza più marcato, quasi come se si potesse entrare nell’immagine. Per completare ciascun lavoro Wåhlstrand ha impiegato mesi poiché le spalmature di inchiostro vengono applicate in strati successivi e gradualmente ricoprono la carta bianca attraverso un processo che l’artista paragona ad una fotografia a sviluppo lento. Impregnato di tensione il lavoro di Gunnel Wåhlstrand trascende il tempo del fotogramma come le istantanee di famiglia che diventano qualcosa di più universale.
Il museo Fotografiska realizzato in un edificio mercantile del 1906 dai tipici mattoni rossi, sulle pendici della collina di Södermalm offre un’interessante programmazione di rassegne fotografiche. Fra le tante è in corso la mostra “Like a horse” – a cura di Sophie Mörner – fino al 3 settembre: una vasta raccolta di scatti, ben 140 di 30 autori diversi, aventi come soggetto il cavallo. Dai celebri scatti storici di Muybridge a David Lachapelle, Herb Ritts, Guy Bordin, per citarne qualcuno, oltre ad alcuni video, questa insolita selezione vuole essere un contributo a evidenziare la relazione fra uomo e cavallo e la fascinazione che da millenni li lega.
Giancarlo Ferulano