29 ottobre 2011

L’interior design contemporaneo tra contaminazioni culturali e omologazione globale

 
L’anima egemonica e quella esterofila del design occidentale: un condominio di lunga data e di piena attualità. Ma chi ha ragione tra le due tendenze, la razionale standardizzazione globale o l’espressiva ispirazione agli stilemi delle diverse parti del mondo? E la compresenza e la dialettica di queste du anime crea contaminazioni virtuose, ulteriore bellezza e patrimonio creativo?

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Dal Gotico Internazionale al Chippendale Cinese, dal Movimento Estetico e dall’Art Déco all’International Style, dalle soluzioni universali dell’attuale furniture design all’arredamento impropriamente definito “etnico”: da secoli l’aspirazione di designer e produttori occidentali ad estendere globalmente i propri codici estetici si è alternata o ha convissuto con la vitalità del design esotico, e con il fascino che questo ha continuato ad esercitare su di noi, fino a momenti di vero e proprio culto. Oggi i maggiori marchi dell’arredamento estendono la distribuzione dei prodotti di design moderno occidentale ai paesi emergenti dell’est e del sud del mondo, ma nel contempo l’arte esotica raggiunge quotazioni record e i design di ispirazione asiatica e africana mantengono un ottimo mercato, soprattutto nel segmento alto di gamma.
Nel febbraio 2009 Christie’s ha battuto all’asta uno sgabello africanista di Legrain a 457,000 euro, ed una scultura di Brancusi del 1914-17 di matrice tribale al prezzo record di 29,2 milioni di euro.
Il prestigioso salone parigino del mobile, Maison et Objet, riserva da anni l’intero padiglione 1 ”Ethnic chic.MIC” ai produttori di design esotici e agli importatori, con 230 espositori presenti nell’ultima edizione.
Alcuni produttori europei recepiscono il mercato e, nonostante la crisi, investono coraggiosamente in design dalla forte impronta tribale, asiatica, africana.
Ma chi ha ragione tra i due, la razionale standardizzazione globale o l’espressiva ispirazione agli stilemi di diverse parti del mondo? E le due anime sono davvero in opposizione, oppure la loro compresenza e dialettica crea contaminazioni virtuose, ulteriore bellezza e patrimonio creativo?
Guardando indietro, i moventi dei razionalisti moderni erano più che giustificati dalle necessità della società contemporanea e dalle possibilità offerte dei nuovi materiali e tecnologie. Le risposte dei nuovi designer furono – e restano – utilissime, permettendo una più democratica diffusione del design, il radicale rinnovamento del gusto, un benessere abitativo nuovo basato su essenzialità, purezza cromatica e formale, poetica dei materiali nudi e naturali.

D’altra parte, il design industriale e l’estetica dettata dalla standardizzazione mancavano dell’energia trasfusa dagli oggetti artigianali e, ancor più, dalle lavorazioni tribali. L’attrazione esercitata dai manufatti africani, quando questi furono conosciuti in Europa, fu fatale per quei creativi che nel design si espressero con l’Art Déco.
Alla stessa necessità di rianimare la dimensione asettica degli ambienti moderni rispose, in seguito, anche il design pop e il post-modernismo. Studio Alchimia sosteneva che “c’è oggi bisogno di situare oggetti lontani, molto lontani, tra gli uomini e nel mondo quali segnali della nostra vocazione alla magia del pensiero, veri salvagente nel tempestoso mare della modernità”. Charles Jencks, critico del modernismo, rivendicava “elementi ibridi più che puri … caotica vitalità piuttosto che ovvia unità”.
Gli sgabelli Time-life del 1960 di Charles & Ray Eames, la sedia Africa del 1975 di Tobia & Afra Scarpa, Prince Imperiale del 1985 di Garouste & Bonetti, Chip del 1991 di Carlo Mo, la poltrona Binta del 2009 di Philippe Bestenheider: sono alcuni degli oggetti che, in dialettica o in aperta polemica con il razionalismo modernista, trasmettono la stessa potente espressività del design africano.
E poi, a ben guardare, ci accorgiamo che “nessun design è un’isola” e che lo stesso movimento moderno ha in qualche modo un  debito di riconoscenza con altre civiltà, in particolare con quella giapponese.
Il bisogno delle avanguardie occidentali del XIX secolo di trovare un’alternativa agli eccessi decorativi ottocenteschi coincise con le prime esposizioni di oggetti giapponesi: il nitore e la semplicità di quel design fornì immediate risposte e ispirazione a europei e americani. Tra i più noti, Frank Lloyd Wright, Christopher Dresser, Carlo Bugatti, Charles Rennie Mackintosh.

Wright, che importò il concetto di pianta aperta negli interni americani, nei suoi ultimi anni di vita confessò ai suoi allievi: “Non vi ho mai detto in che misura le stampe giapponesi mi abbiano ispirato. Non ho mai cancellato quella mia prima esperienza e mai lo farò. È stato per me il grande Vangelo della semplificazione, quello che porta all’ eliminazione del superfluo”.
Il padre europeo del modernismo, Le Corbusier, vide le pubblicazioni dei primi lavori di Frank Lloyd Wright mentre maturava le sue nuove idee. E, con un movimento circolare virtuoso, i giapponesi furono a loro volta influenzati dall’opera di Le Corbusier quando mossero i primi passi verso la modernizzazione dell’architettura.
Nel furniture design, la sedia Marilyn del 1972 di Arata Isozaki si ispirò alla Hill House di Charles Rennie Mackintosh, a sua volta influenzato dal design giapponese.
Attualmente e questa volta in Africa,  l’azienda di design botswanese Mabeo, con il suo team di designer africani ed europei, propone collezioni che armonizzano in modo innovativo le diverse cifre stilistiche.
Sembra che, per quanto incalzi la distribuzione globale di prodotti standardizzati, il bisogno di trovare bellezza e significato negli oggetti del nostro quotidiano possa imporre la sopravvivenza delle migliori espressioni nel mondo. D’altra parte gli interior designer più consapevoli hanno da tempo abbandonato l’adesione purista e “ideologica” ai movimenti di design e nei loro interni giustappongono liberamente arredi di diverse matrici stilistiche, valutando essenzialmente il loro potere evocativo, sensoriale e funzionale.

a cura di imma puzio

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