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L’INTERVISTA/ PIERRE FAUTREL

di e - 26 Aprile 2019
Che fanno oggi i ragazzi del gruppo Obvious Art diventati famosi con la prima asta nel 2018 di dipinti creati con l’Intelligenza Artificiale da Christie’s? Reggono il confronto con la ricerca artistica o si sono ridimensionati? Dal loro studio a Gare du Nord a Parigi, tra velleità artistiche e sfacciata autopromozione, risponde alle mie domande il frontman del gruppo Pierre Fautrel.
Siete un gruppo di tre ragazzi di 25 anni.
«Siamo tre amici di infanzia cresciuti in periferia di Parigi, diventati soci. Abbiamo studiato un po’ ovunque in Francia e abbiamo voluto subito lavorare insieme».
Che studi avete fatto?
«Io e Gauthier [Vernier] abbiamo fatto una scuola di commercio, Hugo [Caselles-Dupré] ha studiato Matematica e sta facendo un PhD di Machine Learning, sull’Intelligenza Artificiale. Non abbiamo un profilo artistico, non abbiamo fatto una scuola d’arte, e non siamo esperti di mercato dell’arte per cui forse non avrò risposta a tutte le domande. Ci è solo successo una cosa incredibile».
Eppure, ci tieni a definirvi come artisti.
«Sì, penso che siamo degli artisti. L’Intelligenza Artificiale non fa una scelta, non ha intenzioni, è ciò che chiamiamo l’IA debole. L’IA forte è quella in cui crede mia madre, è fantascienza. L’unica cosa che un algoritmo è capace di fare è generare immagini a partire da un grande numero di immagini. Per i ritratti classici, che sono ciò che ci ha resi famosi, abbiamo dato un grande numero di immagini ad un algoritmo affinché capisca cos’è un ritratto classico: degli occhi, un naso, una bocca e delle spalle che sorreggono una testa. E a partire da queste regole può ricreare un nuovo modello. Il processo artistico qui è più generale, è una democratizzazione di questa tecnologia, è chiedersi cos’è l’IA. Abbiamo scelto dei ritratti che tutti conoscono, visti in un museo o in un libro di Storia, cioè sufficientemente ancorati nell’immaginario collettivo perché il nostro lavoro fosse capito da tutti».
La Comtesse de Belamy – Obvious
Qual è esattamente il vostro processo creativo oltre lo sviluppo dell’algoritmo?
«Non è un processo lineare. Sviluppando l’algoritmo facciamo un po’ come un pittore che fa delle prove, migliorando il suo lavoro. Anche noi facciamo delle scelte. L’algoritmo genera un’infinità di immagini e noi selezioniamo quella più rappresentativa della nostra ricerca artistica».
Vi basate su un database di opere del passato. Pensate di creare delle opere originali?
«Sì, decidendo di stampare le immagini dell’algoritmo su tela e di incorniciarle con una cornice dorata, scegliamo di ancorarle nel reale, sono opere originali».
Riconoscete che delle immagini con un’estetica dei secoli precedenti non possono essere considerate un’innovazione a livello artistico?
«Secondo me un’opera originale si definisce a partire da un processo artistico originale. È vero che a livello estetico non è qualcosa di innovativo, la macchina non inventa un nuovo stile. Ma degli esperti hanno ritenuto che le immagini generate dall’algoritmo hanno una grana particolare e quindi una nuova estetica. Il risultato visivo può piacere o no, ma siamo riusciti utilizzando mezzi nuovi a creare opere originali. Non ho la pretesa di rivoluzionare la Storia dell’arte ma spero di inscrivermi nella Storia dell’arte».
Che siano generati da una macchina o creati dall’uomo, teoricamente delle opere create sulla base di opere originali sono dei falsi.
«Il nostro intento non è di fare dei falsi, ma di fare opere vere con una tecnica nuova a partire di opere classiche. Avremmo potuto aumentare il livello di realismo e fare opere che il pubblico non sarebbe in grado di distinguere da quelle originali, ma non è quello che ci interessa. Il nostro obiettivo è di giocare su questa stranezza sconcertante, dare una chiave di confronto con le opere originali».
Quindi volete che le immagini generate dall’algoritmo abbiano questa capacità evocativa, che mescola varie opere e vari periodi storici?
«Esatto, l’idea è che di fronte alle nostre opere lo spettatore sappia a quali opere classiche facciano riferimento».
Quindi a livello estetico create opere anacronistiche, siamo d’accordo?
«Se vuoi, sì. Ma il nostro lavoro permette di vedere quello di cui è capace la tecnologia, di interrogarci sul ruolo dell’artista oltre la creazione artigianale, e se l’uomo può imparare dalla creatività dell’algoritmo».
La Baronne de Belamy – Obvious
Quali sono i vostri progetti dopo la vostra prima serie di ritratti chiamati Belamy?
«Credo che non faremo più pittura perché vogliamo esplorare nuovi orizzonti come la stampa giapponese, la scultura greco-romana o l’arte parietale».
Quindi scegliete di guardare ancora più indietro nel passato, restando comunque nel campo dell’arte figurativa. Come mai, con una tecnologia così avanzata, non provate a competere con l’arte del presente?
«Quello che ci interessa è di far riecheggiare l’immaginario collettivo. Non tutti riconoscono un Francis Bacon o Yves Klein. Noi vogliamo essere capiti da tutti, non solo dagli appassionati di tecnologia o di arte».
Perché avete scelto di vendervi sul mercato dell’arte e non come innovazione tecnologica?
«Il problema è che essendo costantemente modificato l’algoritmo non è mai lo stesso: non è brevettabile, quindi non si può vendere. Noi vogliamo proprio fare arte, creare pezzi che interessa la gente, non siamo una startup».
Cosa avete scoperto una volta entrati nel mercato dell’arte?
«Siamo stati sorpresi dall’accoglienza. Le migliori gallerie del mondo ci contattano per lavorare con noi, alcuni musei si interessano al nostro lavoro. Al contrario di quello che si dice sul mondo dell’arte che è una piccola cerchia, abbiamo scoperto un mondo aperto alle nuove tecnologie, senza pregiudizi nei confronti dei nostri venticinque anni».
Non vi sentite un po’ parte di una speculazione?
«No, perché non siamo stati noi a decidere il valore delle nostre opere. Siamo onorati di avere tutto questo interesse intorno al nostro lavoro, anche se c’è una parte speculativa, non ci riguarda. Per noi quello che è importante è avere i fondi sufficienti e gente che aspetta con ansia la nostra prossima collezione».
Farete una mostra in una galleria d’arte?
«Non saprei dirlo ancora perché stiamo in trattative con un gallerista, dipenderà se e che tipo di contratto firmeremo. Ma ci piacerebbe mostrare qualche lavoro prima di questa estate».
Edmond de Belamy. Christies – Obvious
Avevi anche dichiarato che Guggenheim voleva comprarvi un’opera, com’è finita?
«Non è andata in porto».
Per quanto riguarda eventuali collaborazioni con i musei?
«Una nostra opera verrà presto esposta al Museo delle Civiltà del Québec a Montreal. Altri musei che non posso nominare ci hanno commissionato opere. So che qualche collezionista si sta muovendo per prestare le nostre opere in due musei a New York e uno a Parma».
C’è qualche museo francese in ballo?
«Forse, non posso ancora parlare».
Che cosa vi chiedono i musei che entrano in contatto con voi?
«Vogliono che il nostro algoritmo crei una specie di sintesi dell’essenza del museo».
Vi mandano il database della loro collezione?
«Sì, in uno di questi musei abbiamo fatto gli scanner di tutti i pezzi del museo per realizzare un modello 3D che possa rappresentare l’identità del museo».
Quindi è una sintesi della collezione?
«Non esattamente, è sempre la visione della collezione secondo l’algoritmo».
Lavorate ancora con lo stesso algoritmo? Come funziona esattamente?
«Sì, è sempre lo stesso. Nell’algoritmo ci sono due parti, un generatore e un discriminatore».
Che funzionano un po’ come se fossero un artista e un esperto, giusto?
«Esatto, l’”artista” genera delle opere che devono essere il più vicino possibile al database che gli abbiamo dato. All’inizio non è molto bravo perché non ha abbastanza competenze, propone le sue immagini all’”esperto” (o discriminatore) che all’inizio si rende sempre conto che l’”artista” (o generatore) genera immagini che non somigliano alle immagini del database. Ad un certo punto l’esperto sbaglia e l’allenamento dell’artista è finita».
Quindi l’opera è l’immagine che il generatore giudica sufficientemente simile alle immagini del database.
«No, l’opera definitiva è il frutto della nostra selezione. Per esempio, per la serie Belamy, l’algoritmo ha generato mille immagini (che rappresenta un costo importante). Per settimane abbiamo selezionato quelli più somiglianti a un ritratto e con una certa diversità di stili».
Come siete arrivati a vendere un’opera nella casta d’asta Christie’s a New York?
«Prima dell’asta da Christie’s, abbiamo venduto un primo ritratto a un collezionista francese Nicolas Laugero-Lassere, e altri tre ritratti ad altri privati sempre in vendita diretta. Dopo, Christie’s ci ha contattati e ha scelto un altro ritratto fra quelli che restavano della serie Belamy».
Siete riusciti a vendere tutti gli undici quadri di questa vostra prima serie di lavori?
«Sì, a parte tre di cui ha l’esclusiva di vendita Christie’s al prezzo minimo di trecento mila euro».
Le Duc de Belamy – Obvious
Su cosa avete investito i soldi guadagnati con l’asta Christie’s l’anno scorso?
«Ora che possiamo permettercelo, possiamo migliorarci. Usiamo macchine molto più performative che affittiamo in clouding. Abbiamo moltiplicato per dieci la potenza di calcolo dei nostri algoritmi».
Significa che il vostro prossimo lavoro sarà di qualità superiore alla vostra prima serie di dipinti in vendita da Christie’s?
«No, siamo molto lontani da un miglioramento della resa grafica».
Approfittate delle commesse per approfondire la vostra conoscenza dell’arte?
«Sì, sono stato tre giorni nelle grotte di Lascaux la settimana scorsa per incontrare quelli dell’Atelier dei Facsimile del Périgord, per capire cos’è l’arte parietale e in che modo può interessare il lavoro degli artisti».
Le grotte originali di Lascaux sono chiuse al pubblico, hanno aperto nuovi spazi con delle riproduzioni in 3D. Potreste esporre i vostri prossimi lavori lì?
«Si sono interessati al nostro lavoro, non escludo che potremmo collaborare».
In qualche modo vi state specializzando nelle tradizioni culturali di ogni Paese.
«Sì, ci sono degli Indiani d’America che ci hanno chiesto di creare opere con la loro arte tradizionale, anche i Russi e i Messicani. Per ora abbiamo scelto di interessarci alla tradizione giapponese, siamo stati in Giappone ad incontrare gli artigiani della stampa tradizionale e vogliamo realizzare una serie di opere su seta che evocano per esempio l’onda di Hokusai o in generale l’arte medievale giapponese. Se sarà conveniente, potremmo andare a fare uno show in Giappone».
Raja El Fani

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