Categorie: altrecittà

Mimmo Paladino, Storyboard | Casamadre, Napoli |

di - 13 Marzo 2019
Il racconto che Mimmo Paladino pone sulla piattaforma dell’arte, da quel Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro (1977) ai più recenti lavori in cui è possibile assaporare versatilità e velocità, presenta tutti gli aspetti di un vocabolario creativo sempre più aperto alla polifonia linguistica e a un gusto che si nutre di memoria, di storia, di fabula, di presente e di presenze. Con un approccio squisitamente neorinascimentale che rispolvera il mito classico o la tradizione medievale e che si avvale di lingue differenti come la scultura e la parola, la moda e la musica, il teatro, il cinema o la fotografia (difficile non pensare a quegli scatti realizzati agli inizi degli anni Settanta e raccolti nell’introvabile Film del 1997, volumetto con scritti di Mario Martone e Rino Mele), Paladino non smette di meravigliare il suo pubblico, offrendo una galassia estetica dove è possibile percepire una grande conoscenza dello spazio, del tempo, della luce che plasma con urgenza le cose care.
Oggi che l’artista ha compiuto settant’anni (Paladino è nato a Paduli il 18 dicembre 1948) una nuova mostra, organizzata negli spazi della Galleria Casa Madre di Napoli e visitabile fino al prossimo 2 marzo, conferma il suo viaggio camaleontico, il suo acuto percorrere i sentieri del reale, la sua passione per il cinema (già con Quijote, nel 2006, abbiamo avuto modo di saggiare le qualità metanarrative), inteso come dispositivo babelico capace di assorbire e di trattenere in sé tutta una serie di altri linguaggi: e soprattutto di porsi come immagine-movimento in uno spazio, in un riquadro senza peso né tempo. Storyboard, questa nuova personale nata per ricordare che l’arte ha la capacità di «mutare con il mutare degli eventi», è «una mostra un po’ speciale», avvisa l’artista, perché vi sono esposti «gli appunti del film a cui sto lavorando formalizzati in tavole».

Mimmo Paladino, Storyboard, CasaMadre Arte Contemporanea (Napoli)

Appena lo spettatore entra in mostra è accolto da una luce morbida e quasi metafisica che lo invita a lasciarsi andare in un’atmosfera trasognante, fluttuante, sovrastorica e sovratemporale, dove appaiono – come quando da una dissolvenza incrociata che offre la cinematografia vien fuori l’ombra o la sembianza di qualcosa, di qualcuno – una sequenza di carte (quattordici più esattamente), disposte a parete, come fotogrammi su cui si depositano materie e memorie, segni e sogni.
Di fronte a questa sfilata di carte che assorbono il tempo mitico dell’infanzia, una superficie dorata, piccola ma preziosa, rimanda alla sacralità dei fondi bizantini, accoglie le tracce di un’età sospesa, mostra una nicchia la cui plasticità invita a riflettere sul mutamento delle condizioni della pittura (della cultura) durante le varie epoche, dove si esprimono i processi generali di astrazione della mente umana. In questo percorso simbolico c’è, poi, una scultura bronzea (una figura femminile che sorregge un bacile da cui zampilla dell’acqua) che trasforma lo spazio della galleria in piazza, in hortus creativo, in perimetro alchemico dove si percepisce il mistero del fare e del contemplare, dell’agire nel campo dell’arte e del meditare sulla storia delle idee.
Dopo una sezione carica di suggestioni visive, di segni volanti e di impercettibili movimenti che si fanno chiari nella trasparenza dell’acqua rivelatrice o anche rigeneratrice, su una grande parete, in una sala appartata e intima, appositamente costruita per sottolineare la magia del cinema, si arriva alla proiezione di un film non ancora del tutto definito: «un progetto cinematografico cresciuto negli anni e sintetizzato da un montato di frammenti che idea dopo idea sta prendendo la forma attuale».
Quasi a seguire l’orientamento retorico dell’ekphrasis, con immagini che si affollano e tagli repentini che evitano la linearità della narrazione, la metafora dell’arte proposta da Paladino con questo nuovo e entusiasmante progetto pone ancora una volta al centro dell’attenzione il buio magnetico dell’attesa, il mistero del segno, lo stupore nel lasciarsi stupire.
Antonello Tolve
@https://twitter.com/antonellotolve?lang=it

Nato a Melfi nel 1977, è critico d’arte e curatore indipendente, e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Ha conseguito il Ph.D all’Università di Salerno ed è stato visiting professor in diverse università. Tra i suoi libri ABOrigine (2012), Esposizione dell’esposizione (2013), Ubiquità (2013) e La linea socratica dell’arte contemporanea (2016).

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