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Narrando Documenta XI
altrecittà
Prendendo spunto dal lavoro di alcuni artisti in mostra, questa nuova riflessione su Documenta ci conduce attraverso i gangli del 'valor narrativo' della grande kermesse tedesca...
L’impressione che ho avuto ogni volta che uscivo fuori dai megacontenitori di Kassel era che quello che avevo visto aveva a che fare profondamente con la parola, il discorso, la comunicazione anche. Mi veniva detto qualcosa, mi veniva raccontata una storia spesso, quindi c’è stato un ritorno alla narrazione. Ma fino a qui si sta nel genere del documentario, spesso (nel caso della critica della fazione anti-Kassel) banalmente inteso come luogo dell’ingenua denotatività, del grado quasi zero del valore estetico dell’opera. E siamo allora nel caso della confusione tra realtà e immagine – rispecchiamento della realtà, che non tiene affatto conto del carattere comunque costruttivo dell’immagine stessa. Ma prendiamo ad esempio il video dell’asiatica, nata in Uganda, trapiantata in Inghilterra Zarina Bhimji, trascrive luoghi, grandi stanzoni spogli e in degrado, con qualche pagliericcio e qualche fucile, finestre su un paesaggio isolato e il ronzio assordante e continuo d’insetti. Racconta l’Africa, evoca massacri, descrive spazi della memoria. Certo ho preso in prestito uno dei lavori in cui il livello di poeticità e di perfezione formale è altissimo. Ma è un racconto. Come tante delle opere di Documenta, definite neanche opere d’arte documentaristica, quanto “documentari”. Ma non penso che l’audience televisivo di tali “documentari” sarebbe così alto. Documenta allora s’interroga sulle possibilità artistiche dell’arte documentaria, sul carattere costruttivo del discorso. Non è un caso infatti che entrando nel Museum Fridericianum (più largo che lungo) s’incontri subito, in fondo al centro, l’opera (costituita da fogli numerati…) che ricopre letteralmente completamente e senza soluzione di continuità la concava parete del museo per tre piani di Hanne Darboven , né che, sempre al centro e al primo piano, ci sia On Kawara con il suo One Million years (Past and future) (1970-present), che recita le date in una teca di vetro, misurando lo spazio del tempo. Nel cuore della mostra stanno quindi due artisti del gruppo storico del movimento concettuale, che sconfinando dal discorso più strettamente concettuale sulle ragioni costitutive dell’autonomia dell’arte (deprecate dai curatori), penetrano nelle norme matematiche che organizzano il vissuto, come l’inesorabilmente preciso scorrere del tempo. La stessa analisi delle norme che regolano il vissuto organizzato attraverso il linguaggio e, potremmo dire, i segni della comunicazione, permea l’enciclopedica opera di Ecke Bonk (che spazialmente precede/segue sullo stesso piano l’opera di Kawara), dove l’artista esplora potenzialmente 350.000 nomi del vocabolario dei fratelli Grimm. La ratio della mostra quindi si dipana dal centro e poi (come in un videogame) ciascuna porta è la soglia verso un altro mondo che analogamente esplora la ragione della costruzione delle cose per scardinarne le regole gerarchiche e/o occulte, in nome di un rinnovato impegno etico, ormai sentito come imprescindibile e inscindibile da quello estetico.
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Dal 8 giugno al 15 settembre 2002.
Kassel
Ingresso: intero, £ 16.00; ridotto, £ 10.00.
Orari: dalle 10.00 alle 20.00; catalogo: Documenta 11_Platform 5, a cura di Okwui Enwezor, Hatje Cantz Publishers, 2002, pp. 620.
Tel: 0180.511 5611 Fax: 0180.511 5612 E–mail: visitor@documenta.de
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