23 settembre 2018

Oltre l’evidenza

 
Allo Studio Trisorio, riprende il dialogo tra Rebecca Horn e Napoli. Questa volta senza incomprensioni e con un pizzico di mistero

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Tra Napoli e l’artista tedesca Rebecca Horn, una storia di incomprensioni cominciò nel 2002 quando, nell’imminente festa del Capodanno, la folla avrebbe calpestato il suolo della piazza Plebiscito, da cui sporgevano 333 teschi di ghisa. Costituivano l’installazione artistica di Horn, la quale, in quei teschi, copie delle famose capuzzelle dell’antico ossario napoletano delle Fontanelle, diceva di aver rappresentato l’anima di Napoli. Allora, nella piazza, accorse l’Olcea, un’associazione di artisti e amanti dell’arte, con una cerimonia anti-jettatoria che esprimeva la reazione popolare all’opera di Horn, “Corno, Bicorno, Corno, Bicorno” recitava, salmodiando solenne, la voce profonda di Luciano e “Occhi e Malocchi, sciò, sciò” strillava Mario, mentre l’incenso mandava i suoi fumi odorosi. La Horn, in effetti, aveva invitato i napoletani a stare, in quel Capodanno 2003, in un camposanto, calpestando e dissacrando teschi. Su Napoli aveva equivocato. L’aveva capita al contrario. Perché i napoletani non amano la morte ma la vita e rendono vivi anche i morti e gli parlano con rispettoso amore. Parlano a san Gennaro, alla Madonna e ai Santi e, parlandogli, rendono vivi finanche il Cristo morto e le capuzzelle. E Wade Guyton, mesi fa, al Madre, buttava giallo lucente d’oro su una gigantografia proprio di questi teschi delle Fontanelle, per esaltarne la vitalità. 
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Rebecca Horn, Passing the Moon of Evidence, vista della mostra
Alcuni dei teschi del Capodanno 2003, poi, Horn li ha installati al museo Madre, insieme a degli specchi, simbolo della mondana vanità, messi in modo che vi si veda riflessa la loro immagine: Memento mori
Dieci anni dopo, allo studio Trisorio, la Horn installava, in eleganti, sintetiche composizioni, alcuni altri teschi, recuperati tra quelli del 2003. E spesso, girando per il mondo, mostrava le capuzzelle napoletane. Nel 2015 c’era ancora una mostra di Rebecca allo Studio Trisorio e di teschi non ce ne erano più ma le sue opere si dicevano ispirate a Samuel Beckett, autore dall’umorismo macabro, e a Cesare Pavese, scrittore dal profondo pessimismo. Ancora una mortifera tematica. 
Ma, a sorpresa, «Rebecca è una persona allegra, che ama la vita – ci assicura chi dice di conoscerla bene – Lei sperimenta. E fa opere diverse». Ci troviamo allo Studio Trisorio per un’altra sua mostra, “Passing the Moon of Evidence”. 
In mostra non ci sono più teschi et similia ma, invece, elementi naturali, reali o artefatti e meccanismi che producono effetti strani. Il visitatore ne rimane incantato e sta a domandarsi, stupendosi, del perché di quei movimenti, il senso di quegli ingranaggi e quindi di quelle composizioni. È certo un successo, per un artista, suscitare l’attenzione del visitatore e incatenarlo un po’ più a lungo della solita occhiata superficiale. «Rebecca, al suo servizio ha un’equipe molto in gamba, che è in grado di tradurre e materializzare le sue idee», non c’è da meravigliarsi se, magari, Rebecca in questi oggetti non ci abbia messo mano. Spesso dell’arte concettuale l’autore è soltanto l’ideatore. 
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Rebecca Horn, Passing the Moon of Evidence, vista della mostra
Allo Studio Trisorio c’imbattiamo in due farfalle, continuamente, con brevi pause, sbattono le ali. Affannosamente. Sembrano disperate. Ma c’è un grande ramo secco con le punte dorate che dà speranza di una rifioritura. Due specchi circolari l’uno di fronte all’altro. L’uno, che ha sul retro il disegno di uno spicchio di luna, si muove e variamente si specchia nello specchio più grande: gli eterni ritmi naturali della luna e del sole. Sulla sinistra, sono allocate due zucche vuote, sembrano strofinarsi l’un l’altra, in basso una straordinaria boccia di vetro che cambia colore e s’indora. Perché? Perché c’è una foglia tutta d’oro che, come calamitata, le si avvicina e le si appiccica addosso, poi viene respinta e la boccia perde l’oro e diventa del freddo colore del cristallo. Più in là, due grossi rami secchi, sono di metallo ma sembrano veri. In alto, una grossa pietra nera porosa sta tra due cerchi di vetro in movimento reciproco. In due scarpe dalla forma medievale sono ficcate due aste di diversa lunghezza che, muovendosi, sembrano mimare un passo, quello del tempo?
È del poeta il fin la meraviglia / parlo dell’eccellente e non del goffo / chi non sa far stupir vada alla striglia, scriveva il poeta napoletano Giambattista Marino (1569-1615). E in vero stupisce questa mostra intrigante che ha il fascino della natura e dei suoi misteri. 
Napoletane sono anche le esplorazioni naturalistiche del Circolo dei Secreti di Giambattista Della Porta (1535-1615), che si interessa dei segreti della natura. E ancora su questi misteri studiano gli Investiganti seicenteschi, che poi si riuniscono nel Circolo di Medinacoeli. E troviamo testimonianza di studi naturalistici, ancora nel Settecento e nell’Ottocento, negli Atti dell’Accademia delle Scienze borbonica. Se Horn si è ispirata a Napoli, questa volta la ha compresa. Tra lei e Napoli è pace fatta. 
Adriana Dragoni

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