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PINA – Balliamo, balliamo, altrimenti siamo perduti

di - 29 Ottobre 2011
Non è un comune film in 3d con effetti spettacolari e scene d’azione all’ultimo respiro.
Non è la rappresentazione ,come Avatar di un mondo- simulacro metafora dell’estremo realismo dell’immagine in stereoscopia come ultima conquista del cinema. Pina racconta una vita, e a narrarcela c’è Wim Wenders. Autore di capolavori come Il cielo sopra Berlino (1987) e The Million Dollar Hotel (2000), Wenders si allinea nella schiera di quei  registi che vogliono indagare sulla possibilità del cinema di rispondere a questioni estetiche e filosofiche, coniugando tali istanze in un’opera d’arte – il film – dove con immagini si sfiora la poesia. Wenders è anche il regista di Buena Vista social club (1999), primo film – documentario in digitale, dunque non è nuovo alla sperimentazione di  tecniche sperimentali e avaguardiste al fine di esprimere al meglio la propria poetica di autore. C’è un preciso motivo per cui Wenders gira in  3d Pina. Perchè quando vuoi fare un film su una persona a te cara, vuoi il meglio  che c’è sul mercato.
Pina Bausch e Wim Wenders si conoscono nel 1985. Il regista resta impressionato ed ammirato dal lavoro della coreografa che dirige la famosa compagnia Tanztheater a Wuppertal dal 1974. Il lavoro della Bausch su ogni singolo membro della compagnia è finalizzato all’espressione attraverso il linguaggio del corpo degli stati d’animo più svariati, dal malinconico al comico, dall’erotico al rabbioso. La costituzione di una compagnia di Teatro/danza le è costata molteplici sacrifici, inizalmente il pubblico fischiava i suoi spettacoli perchè nessuno prima di lei aveva osato far uscire la danza da schemi rigidi e asettici per renderla uno strumento dell’anima  dei danzatori. Wenders e la Bausch, ormai amici, progettano un film su Pina Bausch e il Tanztheater, ma Wenders non si sente pronto per rendere ciò che l’ha scosso fino alle lacrime-  fluidità vibrante, movimenti espressivi e recitati più che danzati – con una banale biografia da documentario di serie b. L’illuminazione l’avrà nel 2008, dopo la visione, al festival di Cannes, del film-concerto in 3d degli U2 (tra l’altro suoi collaboratori all’epoca di The Million Dollar Hotel).

La possibilità di realizzare un film che renda a pieno le coreografie di Pina gli si palesa davanti. Con la Bausch e la compagnia Tanztheater Wenders seleziona le coreografie da riprendere dal vivo al teatro dell’Opera: Caffè Müller (1978) – sala di un bar, sedie e tavoli che ostacolano i movimenti dei danzatori/interpreti che si muovono come sonnambuli, Le sacre du printemps (1975)- sulle note di Stravinsky e su un pavimento ricoperto da pece, uomini e donne si affrontano in una sorta di arena primordiale, Vollmond (2006) – un grande masso sulla scena tagliata a metà da un fossato, secchiate d’acqua e danze sempre più convulsive,  Kontakthof (1978/ 2000/ 2008) – sala da ballo vuota, danzatori distribuiti a seconda del loro sesso sui due lati di essa, pian piano si avvicinano e si affrontano usando il linguaggio del corpo e infine si uniscono in danze. “Kontakthof” vede avvicendarsi i ballerini del Tanztheater, anziani dai 65 anni in su, adolescenti tra i 14 e i 18 anni.  
L’anno successivo dunque, il progetto è in fase di pre- produzione, la Neue Road Movies di Wenders produce il film del quale iniziano ad organizzarsi le riprese. Ma accade un fatto inaspettato. Il 3 giugno del 2009 Pina Bausch muore. Wenders decide di annullare, per ovvii motivi il film. Saranno proprio i membri della compagnia di Wupertal a chiamare il regista e ad incitarlo a riprendere il progetto in memoria di Pina.  A breve viene deciso l’impianto del film: oltre alle quattro produzioni si inseriranno filmati della Bausch in bianco e nero, inoltre i danzatori verranno intervistati e alle domande – non udibili dal pubblico – risponderanno oltre che con le parole con passi di danza – proprio secondo il metodo Bausch – girati da Wenders e la sua croupe in luoghi diversi di Wuppertal e dintorni come la campagna di Bergisches Land ed alcuni stabilimenti industriali.

Il risultato è un un film sperimentale e coraggioso che regala immagini intense e poetiche. La camera è sempre in movimento, seppur non troppo marcato. Memorabili le scenografie di Peter Pabst, storico collaboratore della Bausch ed emozionanti le liriche riprese nella campagna di Bergisches Land. I filmati di repertorio su Pina – incorniciati da una platea virtuale in 3d – non sono numerosi ma essenziali, l’artista sottile, spesso, con una sigaretta tra le dita, è una presenza quasi invisibile, un fantasma rievocato dai suoi cari – i danzatori, la costumista Marion Cito, lo scenografo, Wenders stesso – che dona spessore emotivo al film. E’ assente il racconto della sua vita, bastano le sue coreografie a narrarla e la commozione evidente dei danzatori. “Quante storie possono essere raccontate senza pronunciare una sola frase”.

a cura di angela bozzaotra
*foto in alto: Pina Bausch fotografata da Donata Wenders nel 2004
[exibart]

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