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07
settembre 2013
Praga, la biennale è servita
altrecittà
Lontana dall'anima barocca del centro, la Prague Biennale plana su un quartiere pulsante di vita. È l’area dell’ex stazione di Zizkov, un tempo snodo ferroviario strategico per il Paese, dove ancora resistono officine e piccoli spacci commerciali. Ma il tutto convive con l’arte contemporanea con disinvoltura, tra ferri battenti e macchine da lavoro come background (anche sonoro) di un luogo scelto per ospitare altro. Almeno fino al 15 settembre
La sesta edizione della Biennale di Praga è giunta al decimo anno (e terzo appuntamento per la sezione fotografica), come sempre concepita, organizzata e curata da Giancarlo Politi e Helena Kontova con la partecipazione del più giovane Nicola Trezzi, nella sezione principale “Expanded Painting”. Che già nel titolo è una declamazione d’intenti, e mira a esplorare le dinamiche del post-modernismo nella pittura in più direzioni. Libera ad esempio nel raccogliere il fluire di immagini della mente, come dimostra la sala allestita con lavori di piccolo formato di Joshua Abelow (Frederick, 1976), e più fredda, vicina a un Minimalismo che si ammanta non solo di geometrie rigorose, ma anche di esperimenti di Arte Cinetica e Gestaltica. Qui trovano posto alcuni pezzi di Bruno Munari (Milano, 1907), della nota serie dei negativi-positivi, che ci restituiscono un artista che ha capito, e gioca con disinvoltura, con le leggi che governano l’occhio. Così il balletto tra figura e sfondo delle forme disegnate, che non concedono deroghe a imperfezioni di factura, si organizza in un sistema visivo dove la posizione di ogni colore è attentamente cadenzata nel suo avanzare o retrocedere sulla parete pittorica.
Proseguendo in questa sezione si segnala, tra gli altri, Florin Maxa (Cluj-Napoca, 1943) con The garden, progetto del 1980-81, di cui è presente un piccolo lavoro pittorico e il video di una performance alla Căminul Artei Gallery di Bucarest. Sulla tela un oggetto che pende dalle fronde di un albero è colto a metà tra uno studio prospettico e la distorsione dell’anamorfosi. Stessa cosa avviene nel video, dove ora quegli stessi oggetti sono moltiplicati in modo caleidoscopico e prendono fuoco, così che i due media guadagnano una loro specularità.
È un’altra prova della tendenza astratta e post-minimalista delle scelte curatoriali la presenza del polacco-israeliano Joushua Neustein (Danzig, 1940): Two Interferences (2008), ben si sposa con la precedente serie di Munari. Due piccole tele, rese per precise campiture orizzontali, vengono mosse da un diverso spessore fisico, per cui la tinta più chiara, meno forte, “avanza” mentre il viola pastello retrocede, e i due tasselli di legno non vogliono chiudere la costruzione in un perimetro. Tra l’archeologia spoglia spiccano le tigri di H.H. Lim (Malesia, 1954, romano d’adozione), quasi graffiate dal vento nello spazio rosso vermiglio, sua nota firma cromatica.
“Expanded Painting” vuol dire vagliare anche concettualmente le potenzialità di un mezzo: è quello che fa il giovane John Henderson (Minneapolis 1984), con Cleanings. Siamo nello studio dell’artista, il quale volteggia nello spazio disegnando arabeschi di sapone sul pavimento che andranno irrimediabilmente via dopo poche ore. Una personale riflessione sull’”eredità” di Jackson Pollock, per usare le parole del noto saggio di Allan Kaprow del ‘58, dove sono presenti tutti gli elementi dell’Espressionismo Astratto: l’orizzontalità, la teatralità del gesto, le grandi dimensioni, ma affrontati qui con un risolino noncurante.
Un ulteriore ramo di interesse vuole esplorare un aspetto più tattile del medium e qui Alberto Burri viene eletto come riferimento e vate. Questo giustifica le intrusioni materiche di Alberto Garutti (Galbiate, 1948) e di Angel Otero (Puerto Rico, 1981), che lavora con colori a olio stesi su una base iniziale di plexiglass, poi raschiati e ricombinati sulla tela per progressive sovrapposizioni. Lavori come questo, che si spiegano anche a partire da una forte manualità di fondo, risentono forse più degli altri di qualche carenza allestitiva, come didascalie scritte a mano libera e prive delle consuete annotazioni tecniche.
“Flow” e “Beyond the Art” occupano il secondo piano dell’edificio, insieme a un omaggio al fotografo ceco Miroslav Tichý (Kyjov, 1926).
La prima, curata da Zuzana Blochová e Patricia Talacko, è un’indagine sulle coeve tendenze artistiche dell’area centrale europea, con particolare attenzione alla scena artistica ceca. Molto interessante l’esperimento di “Beyond the Art”, per la cura di Mira Sikorová-Putišová, dove vengono esplorate storie di Arte Sociale di artisti slovacchi che vivono all’estero. Si parte così dalla ricerca del “free working time” di Jana Kapelová (1982), che dimostra come la creatività alberghi anche dove non dovrebbe, ad esempio nella ripetitività di una giornata lavorativa, al documento sulla vita e l’esistenza di un artista “ospite” del mondo, Milan Adamčiak adottato professionalmente da Michal Murin (Bratislava, 1963), che veste così per lui i panni di gallerista, amico e promoter. Come recita il titolo del lavoro: un tentativo di modulare l’altruismo in “art”-truismo. Chiude questa sezione Manuals for Public Spaces, progetto itinerante e disponibile in open source di Matej Vakula (Zilina, 1981), nato con lo scopo di creare, condividere e proporre soluzioni e migliorie per spazi urbani.
A proposito di aree metropolitane, ecco un rapido sguardo finale alla sede espositiva: scelta oculata perché la Freight Railway Station, progettata negli anni ’30 dal duo di architetti Cavais e Weiss e un tempo unico snodo ceco destinato a traffici commerciali, è ora un buon esempio di riqualificazione applicata alla cosiddetta “archeologia industriale”. Se non altro un’occasione per assaporare una Praga diversa, più metropolitana e meno soffocata da un turismo mordi e fuggi che in alcuni casi sembra un habitat italiano esportato a forza.