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Prometheus-Landscape II : Jan Fabre e la violenza dell’estetica

di - 9 Novembre 2011
Nell’ultimo spettacolo il regista/coreografo/autore/artista belga attraverso una serie di sketches attuava un’invettiva contro la società dei consumi e la mercificazione dell’essere umano stesso, mentre in Prometheus-Landscape II si ribella – come l’eroe dal quale prende il titolo l’opera – ad una società disumanizzata e anestetizzata nella quale l’essere umano è addomesticato e addestrato al conformismo; l’animalità a lui insita viene costantemente repressa e le pulsioni bollate come patologie. Jan Fabre dopo lo spettacolo Prometheus-Landscape del 1988 amplia la sua indagine artistica ed umana sul titano ribelle. Prometheus-Landscape II inizia con il prologo We need heroes now scritto da Jan Fabre. Una performer donna invoca ripetutamente la necessità di un eroe e allo stesso tempo constata  l’assenza di esso, o meglio la sua repressione; un performer uomo manda ossessivamente ed istericamente a quel paese tutti i fautori della psicologia moderna – da Freud a James, da Pavlov a Lewin. Ma l’elemento più interessante del prologo, che introduce la volontà di violenza dell’estetica di Jan Fabre, è il performer collocato tra l’uomo e la donna che recitano il testo. Il terzo uomo in questione  – trattasi di Epimeteo fratello di Prometeo – è legato seminudo alla sedia, il corpo abbondante in mostra, nel miglior stile bondage . Il prologo termina, si apre il sipario. Inizia la rappresentazione del testo di Jeroen Olyslaegers I am the all-giver basato sulla tragedia eschilea Il Prometeo incatenato. Prometeo è in scena – dove rimarrà per tutta la durata dello spettacolo – legato anch’egli da un sistema di corde che rimanda alla celebre tortura del tratto di corda con la quale gli inquisitori tiravano gli arti del condannato fino a slogarglieli.  Ci troviamo sulle impervie altezze del monte Caucaso, dove Zeus ha incaricato Efesto di tener prigioniero Prometeo e di sottoporlo alla tortura dell’aquila. Jan Fabre, per rendere l’idea di un posto “ai confini del mondo” (come lo definisce Efesto), utilizza una scenografia virtuale ossia proiezioni del sole, della luna, dell’acqua, del globo .

Questo luogo caotico e apocalittico vede succedersi una serie di presenze “importanti”: le divinità dell’Olimpo accorrono al monte Caucaso per rivolgersi all’eroe legato. I loro interventi consistono in otto monologhi, nei quali ognuno di loro racconta la propria storia. Sono prodighi di consigli ma vittime addomesticate di Zeus. Alcuni canticchiano scioccamente canzoni largamente note come Light my fire dei Doors e Beacuse the night di Patti Smith. I monologhi sono intervallati da scene di gruppo nelle quali i numerosi performer inscenano ora un incendio, ora siparietti bondage o orgiastici. Sul palco interagiscono con secchi di cenere, estintori, asce, drappi e addirittura con il fuoco. Prometeo, presenza costante, non sempre discute con gli dei; i due dialoghi principali nei quali il suo ruolo è altamente rilevante sono quelli in presenza di Hermes e di Dioniso. Hermes è il messaggero di Zeus, ovvero del potere istituzionalizzato. E’ il servo per eccellenza. A lui Prometeo annuncia fieramente “I resist”. Dioniso invece è ribelle e insofferente  alle leggi umane, ma a differenza del titano che porta fino in fondo la sua ribellione rubando il fuoco sacro a Zeus, si limita codardamente a spassarsela con il suo corteo di satiri e ad inaugurare orge.

E’ una figura nichilista e rabbiosa, alla quale si contrappone  positivamente Prometeo che rappresenta una risposta costruttiva al sentimento di rabbia comune ad entrambi. L’ultima parola è di Pandora che sfida tutti invitando a “distruggere per istruire e ad istruire per distruggere”. La bellissima fanciulla fa conoscere agli uomini la morte, la pazzia, la guerra, la passione. Contravvenendo alla premura di Prometeo di mantenere l’umanità ignara di tali sciagure, Pandora si rivela ancora più audace dell’eroe: è lei l’ eroina della tragedia dove si avvicendano le esibizioni dei più bassi –ma non per questo negativi – istinti umani. La musica di Dag Taeldeman – chitarrista e cantante della rock band belga “A brand” – serve sia da accompagnamento ai monologhi delle divinità sia da colonna sonora delle coreografie eseguite dai performers, selvagge e dinamiche, alcune accompagnate da urla confuse e performance sadomaso. Oltre al genere rock ci sono intermezzi di musica araba, dance elettronica e persino un balletto inquietante con orecchie da coniglio sul mantra hindu Hare Krishna. Tale mescolanza di generi rispecchia la multiculturalità propria alla nostra epoca e contribuisce a stranire gli spettatori che si trovano di fronte ad una rielaborazione del mito attuata anche a livello sonoro e musicale attraverso il riciclo di musica appartenente alle sottoculture. Jan Fabre utilizza la scena teatrale in ogni sua potenzialità; dal fondale rappresentante i pianeti e gli elementi al fumo degli estintori che invade la platea dell’olimpico, dai performer che si sporgono oltre il palco ai quintali di sabbia che cospargono i corpi.

L’indagine sulla corporeità dell’uomo in quanto caratteristica che lo accumuna con gli animali e la materia rappresenta uno dei temi ricorrenti dell’opera dell’artista belga sul qual è inoltre evidente l’influenza della pittura fiamminga nel gusto per la rappresentazione dotata di molteplici punti di fuga prospettici e per la scena costantemente affollata e caotica. In Prometheus-Lanscape II il logos si fa da parte per lasciare spazio al caos, al sesso, alla violenza, all’irrazionale. Nella devastata società contemporanea, non c’è più spazio per la ragione: il protagonista dell’opera di Jan Fabre è il fuoco come simbolo di una possibile rivoluzione, sic et simpliciter. Non servono chiavi d’interpretazione psicanalitiche. “Fuck you Sigmund Freud”!

a cura di angela bozzaotra

Prometheus Landscape II

Ideazione, direzione e scenografia Jan Fabre testo I am the all-giver Jeroen Olyslaegers (basato su “Il Prometeo incatenato” di Eschilo) & We need heroes now Jan Fabre
musica Dag Taeldeman
assistenza, drammaturgia Miet Martens
performers Katarina Bistrovi?-Darvaš, Annabelle Chambon, Cédric Charron, Vittoria De Ferrari, Lawrence Goldhuber, Ivana Jozi?, Katarzyna Makuch, Gilles Polet, Kasper Vandenberghe, Kurt Vandendriessche Lisa May luci Jan Dekeyser,
costumi Andrea Kränzlin
coordinamento tecnico del tour Arne Lievens, sound & video Tom Buys,
tecnico Bern Van Deun
produzione e tour management Tomas Wendelen
english coach Tom Hannes
trainer vocale Lynette Erving (capo della sezione “voce e linguaggio”della Bristol Old Vic Theatre School)
Una produzione Troubleyn/Jan Fabre (Antwerp, Belgium). Con il supporto di Flemish Government.
Una co-produzione Peak Performances @ Montclair State University (Montclair, USA), Théâtre de la Ville (Parigi, Francia), Malta Festival (Poznan, Polonia), Tanzhaus NRW (Düsseldorf, Germania), Zagreb Youth Theatre (Zagrebia, Croazia), Exodos Ljubljana (Ljubljana, Slovenia), La Biennale di Venezia (Venezia, Italia), Bitef Theatre Belgrade (Belgrado, Serbia): all’interno di ENPARTS – European Network of Performing Arts e con il sostegno diProgramma Cultura della Commissione Europea. Internship Edith Cassiers (drammaturgia), Katarzyna Mielczarek (costumi), Maja Zupancic (costumi) Apostolia Papadamaki (con il sostegno della Costopoulos Foundation)

[exibart]

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