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Punta della Dogana e delle meraviglie

di - 20 Luglio 2013
A Punta della Dogana, feudo del magnate del lusso François Pinault, l’eleganza espositiva e concettuale trova nell’architettura con i muri di mattoni rossi ristrutturata da Tadao Ando (2009), un luogo adatto, dall’anima industriale e minimalista, dove inscenare accordi plastici tra 80 opere diverse con una mostra basata sul dialogo, lo scambio, il confronto tra artisti e opere provenienti da diverse aree geografiche e contesti culturali anche contrapposti tra loro. Forse più innovativa di quella a cura di Germano Celant, “When Attitudes Become Form”, remake nostalgico della rivoluzionaria  esposizione del ’69 di Harald Szeemann nella Kunsthalle di Berna, di scena alla  Fondazione Prada, dove si presenta un’ “arte di rifare l’arte”, sebbene il passato non torni.
“Prima Materia” a cura di Michael Govan e Caroline Bourgeois, inaugurata in occasione della 55° Biennale di Venezia, non chiuderà i battenti come le altre a novembre ed è tra le mostre imperdibili dell’anno. È un esempio eccellente di come esibire con uno sguardo nuovo un corpus di opere appartenenti  alla collezione Pinault, comprendenti un arco cronologico che va dagli anni Sessanta ad oggi. L’allestimento di opere di pittura, scultura, installazioni mescolate a perfomance e video, non era facile, seguendo un percorso non cronologico, per raccontare mezzo secolo di storia e di sperimentazioni che ruotano intorno al tema della “prima materia” dell’arte: il pensiero,
su come nasce un’opera dalle infinite potenzialità simboliche.
Gli artisti danno forma alle attitudini che incarnano visioni laterali o surreali del mondo. Le forme simboliche dell’arte possono essere recepite indipendentemente dal significato e col tempo assumono altri valori e da tutti questi materiali emerge una forma del tempo, delineando un “ritratto visibile dell’identità collettiva transnazionale”.
Il percorso espositivo incentrato sul pluralismo globale, giocato sui contrasti di tecniche e linguaggi, inizia all’entrata con Marquee (2013), installazione site specific di Philippe Parreno, che sovrasta il portone di Punta della Dogana, è un segno luminoso che emana e diffonde un’aurea immateriale. Accoglie e sorprende il visitatore all’entrata, il video burlesco No, No Museum (1987) dell’inafferrabile Bruce Nauman, esploratore interdisciplinare, vestito da clown alle prese con azioni convulse e dai suoni ipnotici, come parodia dell’assurdo dell’arte contemporanea. Il percorso continua dentro i paradossi  dell’arte, nella sala dove c’è il guardaroba, in cui Dominique Gonzalez –Foerster ha inserito un’installazione sonora dal titolo Raining (2012), che riproduce il suono di stillicidi e altri movimenti d’acqua, discreto e al tempo stesso ossessivo. Giunti in una sala completamente oscurata, si entra in uno spazio straniante, in un ambiente multiforme d’impatto scenografico, arredato con sedie dal design ricercato e cuffie, dove è consigliabile indossarle e immergersi per isolarsi in un mare magum di scene di feste in lussuose ville americane e di varia vacuità, con piscina e personaggi ambigui persi nel frenetico ritmo di musiche ipnotiche, etno-tecnologiche. Sono gli ambienti di Lizzie Fitch e Rayan Trecartin, coppia d’artisti che lavorano insieme da oltre dieci anni, noti perché realizzano su larga scala in  “sculptural theaters”, un’arte abitabile, sale del cinema concepite come sculture ambientali, che modificano radicalmente lo spazio espositivo.
Al primo piano si trova la sala dedicata a Marlene Dumas, con una serie di dipinti incentrati sulla figura umana che rappresentano la condizione umana, tra la vita e la morte. In particolare lascia un segno indelebile nella memoria, Mamma Roma (2012), opera ispirata al film di Pier Paolo Pasolini, in cui l’artista rappresenta l’urlo di Anna Magnani, assurta a simbolo di tutte le madri lacerate dal dolore per la perdita del figlio. Nella sala successiva di Mark Grotjahn, si trova Turkish Forest (2012), nove dipinti di grande formato che riproducono i particolari macroscopici degli alberi: è un inno al movimento insito nella natura, dai colori cupi che se, osservati con attenzione, svelano volti umani impercettibili e l’interesse dell’artista per un segno in bilico tra astrazione e figurazione, noto per i butterflay paintings. Attrae e gioca sul contrasto forte, l’ironica sala che ospita opere pop-fumettistiche di Llyn Foulknes, è irriverente il dipinto Delivence (2007), in cui l’artista ritrae se stesso in veste di assassino dell’icona Mickey Mouse, motivo ricorrente nelle sue opere, contro la cultura consumistica americana.
La mostra vale un viaggio anche solo per visitare la sala centrale al piano terra, dove i curatori  hanno accostato opere realizzate da artisti del movimento giapponese Mono-ha attratti da materiali organici con quelle di Alighiero Boetti, Mario Merz, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, maestri italiani dell’Arte Povera. Il confronto evidenzia risonanze, corrispondenze, affinità elettive tra movimenti  sviluppatesi entrambi tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in ambiti culturali diversi, qui ricontestualizzati, potenziando l’espressività concettuale e formale dei materiali.
Tra le altre opere esposte dei maestri giapponesi, sono poetiche quelle di Lee Ufan, teorico e capofila del Mono-ha, pittore, scultore, scrittore e filosofo, che rimandano alla caducità dell’esistenza e alla ricerca dell’equilibrio tra spirito e materia, tematiche costanti nella sua ricerca. A Punta della Dogana di nuovo c’è Zeng Fanzhi, artista cinese con un ciclo di opere ospitate nel  Cubo, spazio centrale dell’edificio dedicato a mostre annuali su invito speciale. Nuove sono le relazioni tra le opere, gli artisti e il pubblico, rapporti che si materializzano anche nell’istallazione ospitata al primo piano, Well and Truly (2009) di Roni Horn: otto moduli cilindrici in vetro dalle sfumature degradanti dall’azzurro al bianco, che sembrano aver congelato l’acqua; materiale mutevole, ambiguo, sospeso tra solidità e liquidità, privilegiato dall’artista. Queste sculture minimaliste perimetrano lo spazio e appaiono  trasparenti e cangianti, vivono la luce naturale che proviene dalle ampie finestre laterali della sala.
Il percorso espositivo si chiude all’ultimo piano, nel Torrino, l’area chiamata “Belvedere”, raggiungibile attraverso una rampa di scale che toglie il fiato, ma arrivati quassù sarete ricompensati dello sforzo fatto, non soltanto per l’installazione di tensione cosmica ambientale Six Color sun Vertical Stack (2000) di Diana Thater, composta da fotografie scattate da un telescopio solare della Nasa che separa i colori (rosso, verde e blu), ma anche dal panorama lagunare su San Marco e Canal Grande. Qui capirete che il luogo è l’opera, un omaggio al vedutismo veneziano risolto con una finestra che incornicia e dissolve in una diafana luce viola dietro la grata di ferro la Basilica di  Santa Maria della Salute di Baldassarre Longhena, edificata tra il 1630-31, come ringraziamento alla Madonna in seguito alla liberazione dalla peste.

Jacqueline Ceresoli (1965) storica e critica dell’arte con specializzazione in Archeologia Industriale. Docente universitaria, curatrice di mostre indipendente.

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