14 novembre 2011

Quando l’arte diviene strumento sociale. Intervista a Pietro Ruffo

 
Dagli schizzi architettonici ai wall painting dentro gli ospedali. L’arte di Pietro Ruffo si può definire etica, sociale e utile. Strumento per la riflessione sulla condizione umana, per una volta l’arte non è solo estetica e concettuale…

di

 
G.S.Prima di intraprendere la strada dell’artista, hai conseguito una laurea in architettura. Cosa ti ha portato a scegliere la carriera artistica piuttosto che il lavoro d’architetto e nei tuoi progetti, cosa hai mantenuto dell’impostazione analitica di questi studi?

P.R. La facoltà di architettura mi ha fornito alcuni strumenti che continuo ad utilizzare nel mio lavoro, come il rilievo, il disegno, o le indagini in situ di tipo topografico, storico e sociale. Ogni lavoro è progettato in tutte le sue fasi.
Nei miei progetti sono davvero lontano dall’essere spontaneo, romantico, impulsivo e lo dico perché al mio lavoro manca molto una dose di imprevisto, casualità e magia.
 
 
I tuoi lavori, analizzano grandi temi sociali come il rapporto fra l’uomo e la terra, affrontato tutte le sue sfaccettature, come dimostrano le tue mostre personali a partire dal 2002 con Geologia Umana fino a Paesaggio Italiano del 2010. Qual è la riflessione alla quale vuoi portare il tuo pubblico?

Il lavoro è per me un modo per studiare alcuni temi che mi interessano particolarmente. I disegni che poi emergono, sono delle tappe di questo processo cognitivo e non tanto il risultato di una ricerca specifica.
Attraverso queste tappe, ognuno può creare una sua idea sul tema in questione. Non propongo mai, quindi, una mia visione delle cose, ma giusto degli appunti, delle riflessioni…
Il lavoro tratta spesso del concetto di confine, di quello di autodifesa o di come la nostra presenza sulla terra influenzi la morfologia del pianeta.
 

Nel 2006 hai realizzato un wall painting all’interno dell’ospedale psichiatrico di Colmar, in Francia, in collaborazione con gli stessi pazienti. Qua’è stato il loro approccio nei confronti dell’arte? 

L’esperienza di Colmar è stata molto intensa, per due mesi sono stato in residenza all’interno dell’ospedale psichiatrico, e ho lavorato quotidianamente a dei workshop con i pazienti psicotici. Lo scopo è stato quello di far prendere coscienza alla comunità di un nuovo spazio ospedaliero che la città gli dedicava, ma che ai pazienti spaventava molto. Gli strumenti che abbiamo scelto per familiarizzare con il nuovo spazio e più in generale con la città che li accoglieva, sono stati il disegno, il rilievo e la fotografia. Il loro approccio è stato diretto, appassionato e senza sovrastrutture. Il risultato del lavoro è stato davvero potente, sia visivamente che per gli effetti positivi che ha avuto su i pazienti e su di me.
 
 
Pensi che l’arte possa essere d’aiuto, come mezzo espressivo, ad adulti e  bambini, in ambienti difficili, come negli ospedali?

Penso che per delle persone che in qualche modo non hanno una posizione riconosciuta dalla società, e che non hanno coscienza dei propri mezzi, l’idea di realizzare un intero “processo” dall’inizio alla fine sia molto positivo.
Questo percorso, infatti, gli permette di rendersi conto che da soli sono riusciti a realizzare qualcosa di importante e che questo qualcosa è fruibile dal resto della cittadinanza.
Quando parlo di “processo” non intendo necessariamente di natura artistica, ma un qualsivoglia susseguirsi di azioni che ti permettano di passare dal nulla alla costruzione di qualcosa che prima non esisteva e che ora grazie a te è disponibile anche agli altri.
 

Che ruolo deve assumere, oggi, secondo te, la figura dell’artista e con quali funzioni?

Sinceramente non ho gli strumenti per definire le funzioni che un artista deve avere nella società di oggi. Storicamente gli artisti sono stati chiamati a costruire una nuova idea di società come nel Rinascimento, o per stupire le corti europee come nel Settecento, oppure per descrivere gli orrori di cui è capace l’uomo, come hanno fatto gli artisti del Novecento. Sarà poi la storia, in futuro, a spiegarci a cosa siano serviti gli artisti durante questo secolo. Penso che, l’unica cosa che intanto possa fare un artista è avere un grande rispetto per le intelligenze altrui, e non proporre stupidi giochi di dislocamento, frutto dello svuotamento di qualche vecchia soffitta.
 
 
Nel giugno di quest’anno, a Venezia, al Caffè Florian di Piazza San Marco, in occasione dell’undicesima edizione di “Temporanea – Le Realtà possibili del Caffè Florian” hai inaugurato Negative Liberty. L’installazione è la ricostruzione di un ‘bosco‘, creato con pannelli di carta e pervaso da libellule intagliate, che come hai dichiarato, sono simbolo di libertà individuale. Cos’è per te, che hai lavorato in differenti realtà sociali e culturali, la libertà individuale?

Lavoro sul concetto di libertà da qualche anno, interessandomi a come è stato affrontato storicamente e quali differenze reca in diverse parti del mondo.
Una fase particolarmente interessante di questo percorso, è stata una borsa di studio come ricercatore presso la Columbia Università di New York nel 2010.
Lì ho potuto approfondire questo tema, portando avanti una serie di indagini su alcuni pensatori liberali americani degli anni Settanta e in particolare realizzando Atlas of the various freedoms. In questo lavoro ho potuto intervistare e ritrarre più di 40 fra filosofi e artisti provenienti da varie parti del mondo, e residenti in quel momento a New York, sul concetto di libertà.
Il risultato è stato sorprendente, nessuno mi ha fornito la stessa risposta, ognuno di loro, influenzato dalle tradizioni del paese di origine, aveva una propria concezione rispetto al tema della libertà.
È difficile pensare alla libertà individuale astraendo gli altri, la mia libertà non ha valore se la persona vicino a me non è ugualmente libera. Io sono libero se riesco a far penetrare la tua esperienza, la tua vita, all’interno della mia. L’alterità, quindi, può essere una forma di libertà.
“E cos’è mai se non parte di voi stessi ciò che vorreste respingere per essere liberi?” diceva Gibran e mi fa pensare che noi chiediamo sempre all’esterno maggiore libertà, maggiori diritti, ma che in realtà quello che più è difficile, è trovarli al nostro interno. Non penso che la nostra società abbia raggiunto un grado di maturità tale per cui ci possa permettere di essere liberi individualmente.
 

 
A settembre hai realizzato una personale nel museo di arti applicate di Mosca per la quarta biennale di Mosca, da pochi giorni si è inaugurata la tua prima personale spagnola, Non siamo ancora stati salvati, alla Galleria Tatiana Kourochkina di Barcellona con la collaborazione di Paolo Maistri. Dopo queste esperienze hai già in mente nuovi progetti?

Le mostre di Mosca e Barcellona sono state molto positive, mi hanno fornito la possibilità di preparare lavori nuovi e installativi.
Ora sto lavorando ad un progetto dal titolo The Political Gymnasium che presenterò alla Galleria Blain Southern di Londra a gennaio,  e ad un intervento installativo per un ciclo di incontri sulla primavera araba che si terrà a Milano presso lo studio Carlotta Testori a febbraio. Subito dopo partirò per il Sud Africa, per una residenza di due mesi.
 
a cura di giorgia salerno

foto in alto: Pietro Ruffo. Ritratto di Johnnie Shand Kydd
 
 
[exibart]

4 Commenti

  1. Lodevole questo impegno nel sociale.
    Anche io lavoro negli ospedali psichiatrici
    con terapie visive e visionarie, ma non vengo
    qui su exibart a fare l’artista “impegnato”.
    Ben vengano quest supporti da crocerossini,
    ma quando si fanno passare per arte sono retorici e di una noia pazzesca!

  2. Un impegno sociale per meglio condire un’arte, quella di Ruffo, prettamente decorativa.
    tutti gli artisti privi di grosse fondamenta si buttano oggi su intezioni sociali.
    e’ il periodo. ci vestiamo di vestiti non nostri per cavalcare la moda del momento e raccoglierne sostanziosi frutti.

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