Un paesino di poco più di 10.000 anime ha partorito un progetto ambizioso: il castello, sorto nel 916, diviene “casa permanente delle culture e delle arti”, “contenitore per l’industria della cultura, luogo d’incontro e volano di crescita economica nel segno dello sviluppo sostenibile”.
Dopo una lunga campagna di restauri, diretti da Giambattista De Tommasi, Sannicandro ha riunito artisti pugliesi e calabresi nel castello normanno svevo, in due rassegne a cura di Giancarlo Chielli, docente di Beni culturali all’Accademia d’Arte di Catanzaro. Il curatore le ha supportate con una personale lettura dello sviluppo dell’arte contemporanea in Meridione; ha elencato artisti ed operatori culturali, dimenticandone irrimediabilmente alcuni (il critico e giornalista Maria Vinella, ad esempio, che di recente ha pubblicato una raccolta dei suoi scritti dedicati alle voci pugliesi degli ultimi 25 anni), citandone immeritatamente altri che, invece, hanno contribuito a ghettizzare le anime creative regionali.
Mancando teorici o centri aggreganti nel sud -se si escludono gli artisti di Zelig residenti nell’Abbazia di S. Vito che, sotto l’ala protettiva di Pino Pascali, hanno assunto una connotazione di gruppo– perciò si preferisce individuare il comun denominatore dell’identità dell’artista, pugliese o calabro che sia, in una generica mediterraneità.
Sono mature personalità solitarie, invece, gli artisti meridionali dell’ultimo ventennio; sensibili e colti ultracinquantenni dalle storie parallele ma dalle ricerche divergenti, a loro volta formatori della nuova leva come docenti d’accademia.
Nel castello, le loro opere sono esaltate dalla luce naturale e radente, oppure dal buio totale. Le installazioni ecologiche di Vito Capone giacciono nelle nicchie, sculture in apparenza effimere, fatte di polpa di carta riciclata mescolata a pigmenti naturali, foglie, giunchi, fili di canapa e cotone, caratterizzate da un’acromia che predilige il bianco, animato dal bassorilievo.
Paolo Lunanova colloca alle pareti tre grandi pannelli multicolor: l’ambiguità spaziale data da un impercettibile gioco di rilievi e sagome di oggetti riproposti dal vero, nello spazio al di là del quadro, crea un aperto gioco concettuale e squisitamente estetizzante. Rocco Pangaro racchiude nella simbologia dello specchio, infranto e ricostruito nella forma perfetta del cerchio, sprazzi di luce mediterranea, mentre Gaetano Grillo lavora su fini citazioni e contaminazioni -risolte in un prodotto di alta qualità ma privo di vis– dipingendo su supporti a forma di tavolozza che mitizzano il concetto stesso dell’essere artista.
Appare un omaggio a Vermeer, il trittico di light box di Giulio De Mitri: tra “materiale ed immateriale” (questo il titolo di una recente pubblicazione che ne illustra la più recente attività), indaga la natura della materia mentale e naturale, la offre in grandi plateau d’argilla o rame, la colpisce con il raggio della elemento più immateriale, la luce, producendo la materializzazione del concetto. Nei pannelli retroilluminati da sagomatori, la luce viene fatta affiorare da una grande ciotola, in un ambiguo gioco di dare e ricevere, fino a colpire una sorta di volto/ectoplasma.
Le forme biomorfe di Iginio Iurilli si concretizzano in una grande foglia verde lanceolata e in efflorescenze purpuree; il rivestimento di pigmenti fa l’opera. Si va dal legno dipinto in maniera artigianale alla vellutata copertura delle macro corolle con polveri e pigmenti. Nella stessa sala, dialogano con le glaciali tele ad olio di Beppe Sylos Labini: un’atipica allegoria dell’attuale sistema mass-mediale, incarnato da infinitesimali e quasi impalpabili figurine che danzano su colonne piedistallo: vita=auditel?
giusy caroppo
mostra visitata il 18 marzo 2006
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