Entrando nei corridoi del carcere si prova un senso di claustrofobia: le celle allineate e anguste –non più di due metri per tre– senza suppellettili, sono un pugno allo stomaco. Gli annessi servizi, dotati di uno spioncino, offrono un contesto che spersonalizza, isola, umilia.
È qui, ad Apricena, in una di quelle carceri d’oro mai usate – rese famose negli anni ’80 dall’omonimo scandalo – che un team di colti volontari ha prodotto una mostra inaugurata dal consigliere della biennale veneziana Amerigo Restucci accanto a vari eventi collaterali ed una raffinata retrospettiva dedicata a Tina Modotti.
L’ispirazione alla rodata “Le opere e i giorni” di Padula non è velata: ogni “cella” un artista.
Per lo “Spazio Arte”, curato da Mirella Camassima: Cetera, Vinci, Schirinzi, Spagno, De Mitri, Matti, Policastro, Petronelli, De Francesco, Cristia De Gaetano, Stefani Pellegrini, Schiavulli; nella “Spazio Giovani”: Bellini, Stramaglia, Fiorella, Giangrande, Larovere, Paradiso, Vetturi, Siliberti, Scolamacchia, Colonna, Bombino, Teofilo, Rutigliano; nello “Spazio Architettura”, prevalentemente all’esterno: Flacco, Rosato, Baldassarre, Clemente, Buonamano, L’Annunziata, Talia, Di Lullo, A. Stoico, N. Stoico, Potenza, Genchi.
Tra provocazioni -quella della sinistra giovanile sulla pena di morte- e ingenue performances, sono i soliti noti ad emergere, ai quali il sentirsi solo pugliesi sta stretto: primo tra tutti, Schirinzi, film-maker recentemente pluripremiato, che proietta un autoritratto in video statico/dinamico dalle inquadrature ravvicinate d’ispirazione barocca, secondo il personalissimo “umanesimo della regressione sospeso nell’assenza temporale”. L’Icaro di Cetera è di una raffinatezza incredibile, con quel sunto di storia dell’arte e pathos impressi nel poveraccio raffigurato di spalle che cerca di liberarsi in maniera insistente di qualcosa di fastidioso. Idem Schiavulli che tenta di alleggerirci dalla gravità con un marchingegno di legno grezzo in grado di ruotare grazie ad un sistema di leve e manovelle dove -ancorati con mani e piedi- possiamo invertire il corpo, sperimentando una visione capovolta. Vinci, l’ermetico fotografo sottilmente necrofilo, si ispira alla tragedia di Erica ed Omar, ma anche lui “capovolge” il punto di vista comune, ponendosi dalla parte dei carnefici.
Di Mitri colloca un grande piatto di terracotta colmo di terra che, riproposto come un disco volante su una parete nera, riecheggia la ricerca di spazi aperti, anelito anche del curioso astronauta di Spagno, peraltro squisito lavoro iperrealista a lapis; di contro, istintivo, il gigantismo neo-espressionista di Matti.
In questa ricerca di contenuti, tra calcinacci, sbarre, gabinetti rotti, non poteva mancare un’opera documentaria e site specific, la video proiezione di De Francesco: attraverso uno spioncino passano i racconti in b/n di un ex galeotto barese, “Tarzàn”, fiero di ciò che gli ha insegnato la vita dura del carcere, e le storie pulite ed intriganti di tutti quei ragazzi che raccontano quel posto quale il migliore per godersi qualsiasi libertà.
Un pretesto per raccontare i controsensi della vita e per ricordare che, spesso, gli spazi abbandonati autogestiti sono l’unico sfogo nelle nostre periferie prive di qualsiasi stimolo culturale e ludico.
giusy caroppo
mostra vista il 23 agosto 2004
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