Ore 8.30 del mattino. Partire dalla stazione di Napoli Centrale è sempre un’esperienza che definirei ambigua, divertente, ma allo stesso tempo inquietante. il tutto, questa mattina è amplificato dall’idea di dover prendere il regionale delle 8.55 che scende verso il sud, con destinazione finale Cosenza.
Nelle 4 ore di viaggio che mi separano dalla Calabria (5 col ritardo accumulato) il pensiero si è spesso soffermato sul concetto di residenze artistiche e sulla validità di questo format ormai consolidato, diffuso in luoghi sempre più remoti.
Mi sto infatti dirigendo alla residenza BoCS Art, da quest’anno affidata alla curatela di Giacinto Di Pietrantonio, che ha sviluppato un ciclo diviso in diverse tranche. La prima dedicata ad artisti che lavorano tendenzialmente in gruppo, la seconda, per la quale scriviamo, vede una collaborazione con 4 giovani curatori: Simone Ciglia, Alberta Romano, Caterina Molteni e Roberta Aureli, che rispettivamente hanno invitato 4 artisti a testa: Paola Angelini, Marco Giordano, Davide Mancini Zanchi, Luisa Mè; The Cool Couple, Luca Loreti, Giulio Scalisi, Alessandro Vizzini; Benni Bosetto, Giulia Cenci, Alessandro Di Pietro, Alice Visentin; Veronica Bisesti, Alessandra Calò, Mattia Pajè, Dario Picariello; Apparatus 22.
Il primo dubbio che subito si insedia nella mente parte dal basso, da quella voce di una massa indistinta che si interroga sulla necessità effettiva di un tale “sperpero” di denari per una città il cui centro storico è oramai abbandonato e che letteralmente se ne sta cadendo a pezzi. Facendo una passeggiata per Cosenza Vecchia non si può non avere la sensazione di trovarsi in una città fantasma, lasciata a se stessa, che aspetta soltanto di essere dimenticata e sparire.
Abbandono però subito questa facile constatazione politica, ampiamente risolta da Di Pietrantonio nel tentativo di instaurare un dialogo reale e tangibile con il territorio attraverso una strategia abbastanza inusuale. Dopo l’opening le opere sono state affidate ai cittadini di Cosenza, individuati come i custodi e che le potranno esporre nelle proprie abitazioni, creando così una sorta di museo privato diffuso.
Questo risolve anche in parte alcuni miei pregiudizi circa il metodo di approccio delle residenze ai contesti nei quali si svolgono. Il più delle volte tendono ad una forma di autoreferenzialità estremamente noiosa, una sorta di villaggio turistico per artisti e curatori che continuano a millantare funzioni e potenzialità dell’arte, ma che alla fine non producono nulla, solo l’ennesimo oggetto su questo pianeta. Invece, anche attraverso questo espediente, si tenta di riportare al centro un discorso sulla restituzione e su un “sensibile comune” che si riferisce ad un approccio ben inscritto in una tradizione storica definita.
Penso a tutta la metodologia lavorativa sperimentata a partire dai primi anni ‘60 su un lavoro comune, un’utopia forse mai giunta a realizzazione, come quella teorizzata da Tommaso Campanella nella Città del Sole, da cui per l’appunto questa residenza prende in prestito il nome. Collocata su un colle, la città di Campanella prevede un’organizzazione civile che segue i criteri di una religione naturale identificabile in un Cristianesimo sia evangelico che naturalistico, dove la proprietà privata è abolita, così come la famiglia, dove tutti i beni, non solo materiali, sono in comune e dove ognuno ricopre un ruolo ben specifico, ma senza generare un gerarchizzazione sociale che ammette forme di soprusi o ingiustizie varie.
Difficile non intravedere in questa idea i primi tentativi di creare un’alternativa al di fuori del sistema dell’arte primario da parte degli artist run spaces; la teorizzazione di un impossibilità di riconoscere il comune al di fuori di un gesto politico, “un gesto di appropriazione comune della vita” per dirla con le parole di Toni Negri; gli esperimenti di vita comune come quello iniziato nel ‘94 da alcuni studenti di Alberto Garutti in Via Fiuggi a Milano. Questi sono solo i primi gesti che mi vengono in mente che, senza alcun dubbio, costituiscono quell’eredità nella quale le residenze si iscrivono soprattutto nel tentativo di rifuggire un individualismo imperante nel metodo di lavoro artistico. “Costretti” a vivere nello stesso luogo per tutta la durata della residenza, gli artisti tendono a formare una comunità dove quello che si attiva è un confronto sincero tra le differenti parti e si cerca un conforto su determinate inquietudini o compromessi ai quali un sistema obbliga. Cercando di sospendere quella competizione granitica all’interno del mercato, quello che si trova è un rapporto umano, caloroso, tangibile nel suo essere corporeo. Ma alla fine questo modello di una vita estetica che di fatto nega di configurarsi nell’opera/oggetto d’arte, che quindi riconosce “solo nell’etica la produzione di un’opera d’arte, l’arte di una vita”, ancora con le parole di Negri, resta di nuovo un’utopia.
Nei fatti questo rapporto di confronto/conforto effettivamente si genera, ma resta vincolato esclusivamente ad una dimensione discorsiva, durante i pasti, al mare oppure in serata davanti ad una birra e che viene poi metabolizzato individualmente da ognuno nel privato. Nel momento del lavoro l’artista tenderà sempre a proteggere la parte più “sensibile” di sé.
Nei tre giorni passati in Calabria ho approfondito alcuni di questi aspetti. La prima impressione non è stata così entusiasmante, disposti sul lato del fiume Crati i BoCS sembrano dei mobili dell’ikea sovradimensionati, dall’architettura e dall’arredamento estremamente minimale ed essenziale. Sulla facciata di ognuno di questi campeggiano due grosse vetrate che senza troppi fronzoli, mettono in esposizione i suoi inquilini. Per la stradina non si aggira nessuno, il clima che si respira rispecchia bene o male quella sensazione di abbandono che riempie le strade di Cosenza.
Al mio arrivo gli artisti erano alle prese con gli ultimi preparativi per una presentazione del proprio lavoro al BoCS Art Museum: tante domande e constatazioni sui materiali utilizzati (seppur con un po’ di timore da parte dei partecipanti di “esporsi” in pubblico) e poi – nei giorni successivi, grazie anche a momenti conviviali comuni, come la cena – ho assistito all’instaurazione di un rapporto amicale, a tratti molto affettuoso, fra alcuni dei partecipanti.
Una certa lentezza imposta dal clima decisamente vacanziero si può dire che abbia permesso la formazione di una microcomunità: insieme si vanno a fare scampagnate sulla Sila, si va al mare, si discute sulle inquietudini giovanili del dover scendere a compromessi per essere riconosciuti dal sistema, su come poter al meglio comunicare la propria ricerca. Alcuni artisti in gruppo partono verso sfasciacarrozze, ferramenta, carrozzieri, falegnami; ci si confronta sul metodo migliore per realizzare le proprie opere e si chiedono consigli su progetti futuri. L’entusiasmo, dettato anche da qualcuno di più estroverso è trascinante, ci si prende in giro e si scherza, il divertimento è palpabile. Nessuno si prende troppo sul serio e la cosa è incredibilmente visibile, sotto gli occhi di tutti, ma così spontanea che nessuno se ne accorge, è tutto così naturale.
La realtà a un certo punto torna a fare da schermo. La fine della residenza è alle porte e l’opening è ormai arrivato. Ad eccezione di sporadici casi, il momento del lavoro, come già detto, è rimasto un tempo strettamente privato, in vetrina ognuno lavora ai propri progetti, ma nessuno si aggira più per la stradina, nessuno guarda. Ritorna quell’atmosfera silenziosa.
Resto colpito dalla risposta durante l’apertura al pubblico, un bel gruppetto di persone si forma davanti ai primi BoCS, cittadini curiosi, interessati all’arte, futuri “proprietari” delle opere, una “carovana” si muove sul lungofiume, i curatori delineano i tratti comuni che hanno portato alla scelta degli artisti da invitare e gli artisti accompagnano le persone nelle proprie abitazioni/studio, spiegando i loro lavori. Alla fine del tour la cuoca, che per tutto il periodo è stata chiamata zia e che ha cucinato tutti i pasti, ha preparato un delizioso banchetto. La convivialità ritorna, i visitatori parlano con gli artisti e con i curatori per cercare maggiori chiarimenti, ma una sensazione di tristezza mista a soddisfazione pervade l’aria, un po’ come quando da ragazzini si salutavano gli amici del mare. Sperando di avere l’occasione di rivederli, all’inizio ci si sente un sacco, poi però ognuno ritorna alla propria vita. La “vacanza” è finita.
Vincenzo Di Marino