Se Dio avesse il volto di Hofesh Shechter la sua apocalisse sarebbe davvero un bel “Grand Finale”.
Siamo anime fluttuanti immerse in una realtà che galleggia incerta e vacillante, la cui fine imminente ci trascina verso l’universalità di una condizione caotica e in perenne sospensione. Sopra una materia tanto inafferrabile quanto affascinante prende forma lo straordinario lavoro di uno tra i più noti coreografi contemporanei, Hofesh Schechter, che sotto il segno di una poetica distintiva, sta lasciando un’impronta indelebile nell’arte performativa del nostro tempo.
La Hofesh Schechter Company torna a Romaeuropa fino a stasera sul palco del Teatro Olimpico con il suo ultimo lavoro, “Grand Finale”. Dietro il backstage il coreografo israeliano si racconta svelando le tappe più significative del percorso creativo che lo ha portato alla costruzione dell’intera messa in scena.
“Grand Finale” è l’incontro totale tra la fisicità dei corpi di dieci danzatori e le sinfonie della musica dal vivo (composte dallo stesso Hofesh Schechter) sulla superficie di una scenografia mobile e in perenne mutamento. Ad esso si unisce il sapiente utilizzo di tutte le risorse di una perfetta macchina scenica messa al servizio dell’espressione di quell’oscura materia trattata. Tutto ciò fa di “Grand Finale” uno spettacolo in grado di lasciare lo spettatore senza parole e di rendersi penetrabile ad ogni livello di significazione. L’essenzialità dei movimenti e la potenza dei gesti dei danzatori disegnano oscure visioni e oniriche parvenze che ritagliano la superficie nebbiosa di un fumo grigiastro che avvolge il pubblico del teatro sin dal suo ingresso nel foyer. La scenografia porta la firma di Tom Scutt e si costruisce su un sistema di pareti e quinte in frequente movimento capace di esprimere l’andamento fluttuante della dimensione del reale che si sottrae a qualsiasi pretesa di fissità.
In un continuo incrociarsi di piani compenetranti, in cui lo spazio assume di volta in volta diversa sembianza, si scopre, a tratti, la sagoma di un’orchestra di sei musicisti che suona melodie senza tempo. Le armonie del valzer s’intrecciano a quelle della musica klezmer, fino al suono grave e roboante delle percussioni tribali. Una danza ai confini del mondo ne attraversa nevroticamente ogni luogo e riesce mirabilmente a tradurre in immagini visive quei pensieri così oscuri che da sempre abitano la nostra mente e che soltanto un mezzo espressivo potente come la danza può realizzare.
Hofesh Schechter, Grand Finale – foto Rahi Rezvani 2017
Come descriveresti “Grand Finale” in tre parole?
«Pareti desolate della morte».
Il titolo dello spettacolo suggerisce qualcosa di sorprendente, elegante e straordinario ma inevitabilmente richiama alla mente l’idea della morte. In “Grand Finale” scegli di affrontare una materia tanto oscura in maniera ottimistica, a tratti quasi ironica. Qual è il vero senso di questo titolo?
«È un titolo che proviene dalla tradizione del balletto e dell’opera e in cui vi è una componente sarcastica. Esso sottende qualcosa di oscuro per la natura dell’oggetto che tratta il quale è strettamente connesso all’idea della fine, della morte e di quell’apocalittica energia con la quale l’uomo cerca di affrontare tutto questo. Mi interessa molto osservare le diverse prospettive con cui gli esseri umani concepiscono la nostra realtà totalmente immersa nel caos. Il titolo può essere divertente da un certo punto di vista e molto triste dall’altro ma trovo che ci sia qualcosa di grandioso nel pensiero della fine, nonostante la direzione in cui il mondo sta andando sia tutt’altro che positiva e felice».
In che modo il pensiero della fine, la necessità di farsi testimonianza e memoria collettiva si inseriscono nella tua arte?
«Credo che la mia forma di arte per sua costitutiva natura sia qualcosa di aleatorio. Per il fatto di accadere in un dato spazio-tempo irripetibile, la danza esaurisce la sua esistenza nell’accadere, senza poter essere registrata in modo indelebile nella memoria. Questa è la cosa splendida di arti come la danza. Ciò che conta nel mio fare arte non è il pensiero di essere ricordato bensì rendere possibile la sua continuità con il presente. La danza è l’arte del presente: danziamo la potenza della prossimità e apriamo le porte ad un rito cerimoniale in cui ognuno siede accanto all’altro condividendo qualcosa di unico e irripetibile; ed è straordinario che riusciamo a farlo anche a distanza di migliaia di anni. La cosa più importante è cercare di far si che tutto ciò vada avanti e che altre persone dopo di me continuino a fare lo stesso».
Hofesh Schechter, Grand Finale – foto Rahi Rezvani 2017
Non capita spesso che un autore sia coreografo e compositore di musiche allo stesso tempo. Come hai costruito l’intera drammaturgia di “Grand Finale” riuscendo a far compenetrare i due piani, coreografia e musica? In che modo i movimenti dei danzatori hanno dialogato con la musica dell’orchestra dal vivo?
«La costruzione dell’intera drammaturgia di “Grand Finale” è stato un percorso che ha richiesto molto tempo proprio per la difficoltà di legare ogni piano espressivo all’altro. La sensazione è quella che si prova quando si è ai piedi di una grande montagna e la si vuole scalare ma non si sa come trovare il modo di arrivare in cima. Ciò che avevo in mente era creare qualcosa di selvaggio, profondo e complesso. Iniziando un percorso di questo tipo non ho lavorato come uno scrittore di musica per film che scrive la partitura musicale e su di essa impronta la coreografia. Non è stato un procedimento lineare in cui si avanza in modo ordinato da un passo all’altro. Direi piuttosto di aver lavorato come uno scultore che costruisce la materia pezzo per pezzo sapendo che sarà questione di tempo. Ho iniziato a dedicarmi allo spettacolo un anno prima annotando idee, pensando agli arrangiamenti sonori, parallelamente improvvisando alcuni movimenti. Per quasi cinque mesi ho lavorato con i danzatori e poi con i musicisti. Entrambi, musicisti e danzatori operano su una scenografia che è mutevole e cambia continuamente; questo fa si che la struttura drammaturgica sia sempre diversa, in continua trasformazione: i musicisti stessi appaiono e scompaiono. Volevo rappresentare qualcosa che non fosse chiuso nella sua fissità. La scenografia si compone per gran parte di muri ai quali si cerca di aggrapparsi. Vi è quindi l’idea di attaccarsi a qualcosa di sfuggevole che non ha stabilità come la realtà in cui viviamo. Non c’è spazio per l’improvvisazione all’interno della messa in scena. Ho l’abitudine di fare improvvisare i miei danzatori solo in fase preliminare per fargli esplorare lo spazio ma generalmente le mie coreografie sono strettamente strutturate. Vale lo stesso per le musiche: i musicisti seguono partiture ben precise ad eccezione di un momento nello spettacolo in cui hanno la piena libertà di improvvisare. Prendo molto dai musicisti e dai danzatori per le mie creazioni nella misura in cui chiedo loro di mettere tutto sé stessi nel mondo in cui li inserisco e questo è per me una risorsa preziosa».
Hofesh Schechter, Grand Finale – foto Rahi Rezvani 2017
Quali sono le forme di ispirazione alla base dei tuoi lavori?
«Principalmente sono la musica e il cinema. Soprattutto quest’ultima. Ogni film di Stanley Kubrick suscita in me grande impatto: nei miei lavori ci sono molte tracce dei suoi film. Adoro la forza che sprigionano le sue immagini. Sotto alcuni punti di vista i film di Kubrick si collocano ad un livello che è molto vicino a quello della danza contemporanea: non è qualcosa di descrivibile a parole; puoi starne a parlare ore intere e ogni volta non riuscirai mai centrare il punto perché rimarrà sempre qualcosa di nascosto, celato qualcosa che accade nel subconscio che ha una tale potenza da non poter essere descritta. Altre ispirazioni provengono dai lavori di coreografi che ho incrociato negli anni della mia formazione. Ma l’ispirazione principale è il modo in cui le strutture sociali influenzano e manipolano gli individui; è questo il motivo per il quale amo lavorare con un gruppo di persone».
Cosa vorresti lasciare allo spettatore che uscirà dalla sala dopo aver visto “Grand Finale”?
«Spero che le persone lascino la sala con un senso di empatia, anche se è un obiettivo davvero ambizioso. Mi piacerebbe far nascere un senso di fratellanza tra uomini e donne, quel sentimento che potrebbe nascere se fossimo tutti insieme su una barca e all’improvviso venissimo sorpresi da uno strano temporale e cercassimo di fare quello che si può per stare a galla, uniti. Spero di sviluppare un senso che ci porti ad accorgerci di chi ci sta intorno e della realtà che ci circonda: un senso di compassione».
Valentina Cirilli
Coreografia, Musica: Hofesh Shechter
Scene, Costumi: Tom Scutt
Luci: Tom Visser
Collaborazione musicale: Nell Catchpole, Yaron Engler
Direttore artistico associato: Bruno Guillore
Assistente design scene e costumi: Rosie Elnile
Danzatori: Chien-Ming Chang, Frédéric Despierre, Rachel Fallon, Mickael Frappat, Yeji Kim, Kim Kohlmann, Erion Kruja, Merel Lammers, Attila Ronai, Diogo Sousa
Musicisti: James Adams, Chris Allan, Rebekah Allan, Mehdi Ganjvar, Sabio Janiak, Desmond Neysmith