09 settembre 2015

Sylvia Hallett, Vigne Museum, Rosazzo

 

di

Livio Felluga, fondatore dell’apprezzata casa vinicola che porta il suo nome, ha compiuto da pochi giorni 101 anni. Un anno fa, per il centenario, i quattro figli gli avevano fatto un regalo speciale: il Vigne Museum, museo all’aperto, concepito da Yona Friedman e Jean-Baptiste Decavèle, che si ramifica fra i vigneti dell’azienda. Quest’anno, il genetliaco è stato anticipato da una serata di grande suggestione con il concerto di Sylvia Hallett a Rosazzo. Paesino di poco più di tremila anime sui colli orientali friulani, popolato non solo da chiese, santuari, castelli e abbazie, ma anche, appunto, dal Vigne Museum.
Il progetto del Vigne Museum, caratterizzato da un contenitore senza pareti, frutto di pensieri e studi sulla sostenibilità e sull’annullamento delle frontiere, si espande concettualmente oltre i confini spazio-temporali, divenendo struttura accogliente, armonica e ibrida, in grado di essere attivata e al contempo attivare tutto ciò che al suo interno viene ospitato, così come è avvenuto per le melodie della musicista inglese. Wine Songs è, proprio come l’installazione che l’ha accolta, omaggio ai 100 anni di Livio Felluga, nonché frutto di un lungo lavoro sul territorio, alla ricerca delle impercettibili sonorità emanate dalle vigne; fra quelle armoniche della natura e quelle stridule e underground della cantina. Il risultato è un melange dal sapore multietnico, riarrangiato dalla Hallett in un’unica traccia musicale, sulla quale si è svolta l’intera performance della serata. Così, improvvisazioni di violino e archi di violino su ruote di bicicletta – elementi caratteristici del suo fare e della sua ricerca – , si sono alternati ai percorsi degli stessi sui tralci delle viti e sulla struttura di Friedman e Decavèle, dando vita ad una serata visionaria ed alchemica che ha saputo amalgamare in modo spontaneo natura ed artificio, oltre che collegare tempi passati con quelli presenti, per poi immaginare nuovi futuri. Futuri caratterizzati da un’armonia raggiunta nonostante la diversità linguistica e lo sconfinamento continuo, dove le radici non si espandono più solamente in profondità, ma divengono elemento mobile che si sviluppa in altezza e larghezza. Che si sa adattare e sa accogliere tutte le circostanze, così come insegnano sia la poetica ecosostenibile degli artisti ideatori di questo Museo del Quotidiano, che quella spontanea e ibrida della compositrice. Una serata dal sapore arcaico e lunare, conclusasi con il coinvolgimento del pubblico, che da un lato – facendo scorrere sinuosamente le dita sui bordi dei bicchieri –, ha creato suoni tattili, mentre dall’altro, spingendo il proprio soffio fino agli abissi delle bottiglie di vino, ha animato l’impercettibile e il sedimentato.
Eva Comuzzi

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