Le pagine irrigidite dalla polvere diffondono sottili crepitii, l’inchiostro sbiadisce lasciando sfumati filamenti tipografici. Il libro è uno di quei pochi oggetti che, per una strana coincidenza subatomica, migliora con il tempo e con l’utilizzo. E non è solo una questione di forma. Oltre alle storie narrate dagli autori ufficialmente riconosciuti sui titoli di copertina, si possono immaginare altre situazioni di lettori antichi, seduti sulle loro poltrone nei salotti oppure distesi sui teli mare, il secco sentore di un caminetto oppure la ruvidità scagliosa della sabbia possono esistere attraversando un invisibile varco di cellulosa. Quando i libri vecchi sono riuniti in ampie raccolte, esprimono una totalità misteriosa, al di là della somma delle parti, come se gli eventi non raccontati e intangibili che vi risiedono avessero trovato uno stato di perfetta armonia con la presenza fisica usurata. Setacciare le bancarelle dei libri usati si inserisce in un ambito complesso dell’esperienza, per quell’estetica dell’objet trouvé, dell’improvvisazione tenacemente resistente all’ordine delle moderne, patinate, sfavillanti, librerie, che pure hanno una legittima gradevolezza.
Per “Codex”, Antonio Biasiucci ha esplorato il fascino del libro antico, interpretando questa sfumatura di presenza e rarefazione in una mostra fotografica, visitabile al Museo Archeologico fino al 18 luglio, e in un’installazione site specific, allestita nella sede della Fondazione Banco di Napoli. L’ente gestisce l’archivio della documentazione bancaria più imponente al mondo – con milioni di testi dal XVI secolo a oggi, in un percorso di scaffalature lungo 80 chilometri scanditi in più di 300 stanze – e ha promosso l’operazione, a cura di Gianluca Riccio, che rientra nell’ambito de “Il Cartastorie”, un progetto di dialogo con i linguaggi del contemporaneo, tra contest di narrativa e poesia, percorsi multimediali e residenze d’artista.
Quaranta grandi fotografie, in rigoroso bianco e nero e ritraenti altrettanti volumi conservati nel cinquecentesco palazzo Ricca e nell’attiguo palazzo Cuomo, sono disposte in quattro file sovrapposte su un’unica parete bianca della Sala Stellata, un ampio ambiente al piano terra dell’Archeologico e con il soffitto a volta, rimasto chiuso per molti anni e nel quale, già nel 1999, Biasiucci presentò Magma, uno dei lavori più rappresentativi della sua ricerca, dedicato alla bellezza inquietante dei vulcani italiani. «Proseguiamo sulla linea di apertura al contemporaneo», ha detto il direttore Giulierini che, con l’appoggio della Sezione Didattica guidata da Marco De Gemmis, punta a mantenere ben salda una scia espositiva sempre vitale, attiva fin dai primi anni 2000, dalle mostre di Jeff Koons, Francesco Clemente e Damien Hirst, organizzate da Achille Bonito Oliva per “Gli Annali dell’Arte”.
Biasiucci, che iniziò il suo percorso artistico nel laboratorio teatrale di Antonio Neiwiller ed è tra gli artisti selezionati per il Padiglione Italia dell’ultima Biennale, lavora da sempre su quella zona visiva in cui frammentazione e ricostruzione arrivano a coincidere, verso un momento di sintesi dell’azione e dell’idea. Questa composizione è calcolata secondo una metodologia rigorosa che viene applicata non solo nel momento dello scatto, per cui l’attimo non è più decisivo, ma anche nella disposizione dell’opera finita, sia nell’impaginazione di un libro che nell’allestimento in uno spazio espositivo. Così, al Museo Archeologico l’impatto percettivo si basa su una combinazione misurata di forze, i ponderosi profili dei volumi si uniscono in un unico corpo megalitico che si disgrega gradualmente nei particolari del taglio tipografico, con la linea ondulata dei fogli, saturati dalle stratificazioni delle limature d’inchiostro. Vergati a mano, con le imprecisioni e le incertezze della grafia, conti bancari, prestiti, pagamenti, indici di nomi e cognomi, si susseguono in una vertigine frammentaria. Tra questi segni lasciati dai momenti del quotidiano, Biasiucci traccia un’ipotesi lirica che evita la dimensione narrativa, il libro si impone nella sua consistenza enigmatica, come un’architettura dalle geometrie indecifrate. È un’estetica della sospensione e del dubbio, che non tenta di riannodare i fili di storie ormai dimenticate, «scarnificare l’immagine privandola di ogni appiglio con la realtà esterna e semplificarla sino al limite di un’essenzialità plastica vuol dire per Biasiucci insistere su questa dialettica tra presenza e assenza, tra perdita e riaffioramento», scrive Gianluca Riccio nel testo per il catalogo pubblicato da Contrasto.
Tale operazione di rilettura sottile continua nella sede dell’Archivio, con Moltitudini, l’installazione site-specific realizzata in collaborazione con Stefano Gargiulo e Pasquale Scialó, che rimarrà in esposizione permanente. Salendo al terzo piano, dopo un percorso tra le alte scaffalature fitte di registri ed elenchi, si accede a una camera oscura, dove si intuisce la presenza ossessiva dei faldoni. Su questa superficie di sovrapposizioni irregolari sono proiettate le immagini di alcuni lavori di Biasiucci, tra i quali si riconoscono i calchi dei volti e dei crani, presi dal Museo di Antropologia di Napoli, per due progetti risalenti al 2009 e al 2013. I tratti somatici, i solchi delle ossa, si riflettono sulle carte per pochi secondi e poi scompaiono, come storie appena delineate.
Mario Francesco Simeone