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Un padiglione per l’Italia senza speranze

di - 18 Aprile 2019
Il padiglione che rappresenterà l’Italia all’expo di Dubai 2020 è costituito da 3 barche capovolte, ciascuna verniciata con uno dei tre colori della bandiera nostrana. L’idea sembrerebbe essere quella di “riutilizzare” degli scafi per trasformarli in certe inedite – o quasi – “guglie ittiche”, un’operazione certo non priva di interesse, fosse solo per la curiosità e la platealità del gesto.
Nel descrivere l’opera, i progettisti parlano di architettura circolare e dell’imbarcazione come di un simbolo capace di raccontare e simboleggiare il nostro paese nel mondo: ancora una volta il romantico popolo di santi, poeti e navigatori di mussoliniana memoria. Resta tuttavia che, messa da parte la retorica della natura esplorativa e avventurosa degli italiani, la scelta delle barche rovesciate, in questo preciso momento storico, non può non innescare numerose riflessioni collaterali.
Moltissimi, senza troppi sforzi, hanno collegato il padiglione all’immagine dei barconi dei migranti naufragati nel Mediterraneo; molti altri, altrettanto giustamente, l’hanno paragonato alla Costa Concordia e in generale alla relazione non proprio felice tra il nostro paese e le infrastrutture. Certo, risulta quantomeno difficile, mentre case e ponti crollano e le ricostruzioni vanno alla velocità della tartaruga, esaltare l’ingegno e l’abilità tecnica del Bel Paese senza rischiare un sonoro pernacchio.
Eppure, a una lettura più approfondita, il problema non sta tanto e non solo nella scelta degli scafi rovesci; una scelta che potrebbe anche essere letta come un’auto-denuncia, un’operazione culturale simile a quella messa in atto da Sorrentino con La grande bellezza: l’attuale condizione dell’Italia, impaludata nei nuovi, pazzeschi, rigurgiti razzi-fascisti, non è forse perfettamente sintetizzata da un barcone ribaltato in procinto di affondare? Peccato solo che lo sfarzo dei bei rendering non sembri assumere tonalità drammatiche o auto-ironiche, come nel film di Sorrentino, ma piuttosto auto-celebrative.
Padiglione Italia, Expo Dubai 2020, CRA-Carlo Ratti Associati, Italo Rota Building Office, F&M Ingegneria e Matteo Gatto & Associati
Comunque, la debolezza maggiore sembra stare proprio nel concept, cioè nell’idea; anzi, nel modo in cui le idee del riutilizzo, della circolarità, di per sé positive e stimolanti, vengono declinate.
Già, perché l’ingegno che ha fatto grande e meraviglioso questo paese, come strenuamente tenta di ricordare Alberto Angela (Meraviglie, in onda su Rai Uno), non sta tanto nell’aver ripetuto simboli e stilemi delle ere scorse, cercando macchinose e astruse ri-significazioni di oggetti bell’e pronti, ma nell’aver indicato con coraggio nuove vie dove prima non c’erano che sterpaglie.
Invece, il gesto che configura il padiglione Italia sembra essere tanto sintetico quanto scialbo, privo di sforzo compositivo, di “fatica del concetto”, per ricordare Hegel: se da una parte si pone la necessità di coprire uno spazio, proteggendolo dagli agenti atmosferici, e dall’altra la necessità di farlo in maniera eco-compatibile, il ricorso all’imbarcazione, e quindi alla metafora degli italiani navigatori, sembra insufficiente. Perché, allora, non usare la carrozzeria di una Fiat, o quella di un vecchio tram milanese, senza doverle nemmeno ribaltare (finendo nel paradosso suddetto)?
Padiglione Italia, Expo Dubai 2020, CRA-Carlo Ratti Associati, Italo Rota Building Office, F&M Ingegneria e Matteo Gatto & Associati
Così, alla fine, il padiglione risulta un pastiche senza coerenza, illeggibile, anonimo, e il banale uso del tricolore – la barca rossa, la bianca, la verde – finisce con il denunciare una totale rinuncia alla costruzione di soluzioni inedite ai problemi dell’oggi. Perché, quando in architettura si parla di soluzioni, si parla anche e soprattutto di estetiche, di linguaggi: come se Sorrentino, nel voler rappresentare il tragicomico panorama italiano, avesse montato insieme una serie di video di calcinacci, immondizia e sparatorie senza trasformare tutto questo in metafora, in allegoria, in narrazione cinematografica.
Forse, guardando al mondo, alla crisi ambientale, all’instabilità geopolitica, alla precarietà di questi anni tesi tra sordi passatismi e apocalissi imminenti, è lecito aspettarsi qualcosa di più dall’estro italiano; perché il compito dell’architetto resta quello di comporre le necessità mondane (sostenibilità, riuso, riciclo, ecc.) traducendole in figure, in luoghi, in spazi. Cioè nel corpo vivo e presente di desideri e speranze.
Mario Coppola

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