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I sacri spiriti dei Songye, in mostra nella Cappella Palatina di Napoli
Archeologia
di Fabio Avella
Nella Cappella Palatina del Maschio Angioino, a Napoli, è allestita la mostra “Sacri spiriti. I Songye nella Cappella Palatina”. La mostra è curata da due esperti internazionali di riconosciuta competenza: Bernard de Grunne e Gigi Pezzoli. La produzione dell’evento è di Andrea Aragosa per conto di Black Tarantella.
Le oltre 130 opere, radunate da ConselliArt, rappresentano un’inedita e fondamentale esposizione sulla scultura tradizionale dei Songye, un gruppo etnico africano insediato in un ampio territorio della regione centrale, quadrante sud-orientale, della Repubblica Democratica del Congo.
Ritrovarsi dinanzi a manufatti di eccezionale valore antropologico, nella Napoli di oggi, dà l’opportunità di osservare in maniera tangibile l’occasione che ebbero a fine ‘800 gli europei incontrando tali opere “cultuali”, che segnarono profondamente l’arte contemporanea e la visione multiculturale della società occidentale. Certamente quell’incontro fu uno spartiacque fondamentale che diede nuove prospettive alla concezione complessiva dell’individuo del tempo e rivoluzionò l’idea estetica della nostra cultura, oggetti che determinarono quel cambiamento rivoluzionario che fu innescato definitivamente dalle avanguardie e non solo nelle arti plastiche. Ma ciò che inizialmente fu definita arte “primitiva” e fu inglobata nella cultura occidentale, divenne, nel corso del secondo ‘900, diverso, plurale e multiculturale.
Ancorché l’Antropologia, almeno fino agli anni ’60, avesse continuato a studiare queste culture e i loro manufatti ancora secondo una logica evoluzionistica, che semplificava la valutazione a una condizione “umana infantile”, ebbe l’arguzia di modificare completamente il proprio pensiero valutando proficuamente la complessità culturale di questi popoli e la diversità nell’adattamento al mondo, in particolare delle loro forme. Quest’ultime non sono ascrivibili alla nostra idea di arte, quella nata teoricamente tra il VI e il V sec. a. C. in Grecia, ma rimandano all’utilizzo estetico dei manufatti assolvendo la loro originale funzione rituale. Quindi, non un’arte che ha “istituzionalizzato” le manifestazioni estetiche, bensì la radice dell’arte che ha origine nel rituale e si manifesta tramite forme e oggetti.
Infatti, le sculture presenti in mostra, statue a uso collettivo o privato, hanno assolto nella comunità di appartenenza alla loro funzione magico-protettiva tramite l’intervento di specialisti rituali dopo che gli scultori realizzarono il manufatto. Tale compimento venne eseguito mediante canti, preghiere e con l’aggiunta di elementi animali e naturali.
E proprio gli scultori e le loro qualità esecutive, il loro stile, sono al centro di questo percorso espositivo. L’andamento narrativo del cammino curatoriale pone l’attenzione, appunto, sulle differenze realizzative delle piccole e grandi statue, cercando di ripristinare un discorso storico artistico su chi ha eseguito le opere o, in ogni caso, l’appartenenza di queste alle micro comunità Songye. Tant’è che queste realizzazioni etnico artistiche sono imprescindibilmente legate alla figura umana, nonostante le loro differenze esecutive, perché create con codici linguistici comprensibili alla collettività, fungendo da collettore sociale, così legittimando le istituzioni e il potere.
Visitabile fino al 15 gennaio 2023, l’esposizione gode del patrocinio dell’Ambasciata della Repubblica Democratica del Congo a Roma, del Consolato della Repubblica Democratica del Congo a Napoli, della Regione Campania, del Comune di Napoli, del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dell’Università “L’Orientale” e del Centro Studi Archeologia Africana di Milano.