Quando
Walter Gropius, nel 1919, assunse
la direzione del neonato Bauhaus, probabilmente tirò un sospiro di sollievo.
L’impiego di direttore in una scuola non era certamente da disprezzare con la
guerra appena finita e la crisi economica che costringeva gli architetti a
scegliere tra fare la fame o emigrare. Ma, allo stesso tempo, per lui che era
stato il principale assistente dell’architetto
Peter Behrens l’incarico offerto non era particolarmente
gratificante. Infatti il Bauhaus, che assorbiva in un unico organismo la
Kunstgewerberschule, diretta sino al 1914 da
Henri van der Velde, e la Scuola Granducale di Arti Plastiche, era una
scuola di arti e mestieri, cioè un’istituzione di rango minore. E soprattutto
aveva sede in una cittadina come Weimar, che non poteva certo paragonarsi a
Berlino.
Gropius
sino al 1928, quando diede le dimissioni dal Bauhaus e tornò a fare
l’architetto a tempo pieno, probabilmente non vide l’ora di andarsene. Anche
se, da perfetto amministratore della propria immagine, cercò di trasformare i
nove anni di esilio in un’esperienza memorabile per l’architettura
contemporanea. Operazione straordinariamente brillante se consideriamo che
oltretutto il Bauhaus comincerà a essere una scuola di architettura solo un anno
prima del suo allontanamento, nel 1927, per continuare poi con i direttori a
lui successivi:
Hannes Meyer e
Ludwig
Mies van der Rohe.
Anche
dal punto di vista teorico, la condizione di quella che sarà considerata la
fucina del Movimento Moderno era confusa. Gropius era stato, infatti, attratto
dalla cultura espressionista, allora particolarmente fertile in Germania. Tanto
che, per diverso tempo, il principale punto di riferimento della scuola fu Hans
Itten, un personaggio carismatico che praticava il mazdaznaniesimo, una
disciplina mistico-filosofica a carattere teosofico. E Itten vestiva
all’orientale, mangiava cibi particolari e viveva nel parco di Weimar nella
cosiddetta Casa dei Templari, un edificio gotico progettato da Goethe.
La
scelta funzionalista avverrà più tardi e non senza ambiguità. E così nel 1921
quando
Theo van Doesburg,
l’inventore di de Stjil, si recò a Weimar con la prospettiva, poi disattesa, di
poter insegnare, rimase particolarmente colpito dalla mancanza di una chiara
direzione di ricerca. Fatto che lo porterà a creare un’antiscuola fuori delle
mura del Bauhaus e così ad arrivare a uno scontro memorabile con Gropius, il
quale non glielo perdonerà mai. Inoltre, nel 1928 il nuovo direttore Hannes
Meyer, seguace della corrente funzionalista che faceva capo alla rivista
ABC, descriverà allarmato i lavori già prodotti dagli
studenti, frutto a suo dire di un atteggiamento eccessivamente estetizzante.
Gropius
era un formidabile mediatore e un mediocre talento creativo. Insomma: un
politico. Per sua fortuna, per buona parte della sua vita seppe affiancarsi a
progettisti di vaglia, ai quali credo debba attribuirsi il merito dei suoi
edifici più riusciti. In quegli anni il partner era
Adolf Meyer, un personaggio da rivalutare e al quale bisognerà
attribuire le soluzioni più brillanti della nuova sede Bauhaus, l’edificio
inaugurato nel dicembre 1926 a Dessau, una volta che la scuola fu costretta,
per la vittoria in Turingia dei nazionalsocialisti che le tagliarono i fondi, a
trasferirsi da Weimar.
Il
fatto che la scuola non ebbe un indirizzo poetico chiaro e non inventò mai,
come vorrebbero alcuni, uno stile Bauhaus fu provvidenziale. Perché permise una
pluralità di apporti. Dal 1919 al 1933 personaggi straordinari vi insegnarono
le più diverse discipline:
Paul Klee,
Wassily Kandinsky,
László Moholy-Nagy,
Marcel Breuer, Mies van der Rohe,
Lyonel Feininger,
Oscar Schlemmer, solo per citarne alcuni. Alcuni di questi operavano in direzione
funzionalista, altri espressionista, altri onirica e metafisica.
In
realtà, nell’animo di Gropius un cambiamento di direzione culturale si era
delineato tra il 1927 e il 1928, quando capì che avrebbe dovuto abbandonare
l’espressionismo e stringere alleanza con altri due protagonisti di quella
stagione:
Le Corbusier e Mies van
der Rohe. L’occasione fu offerta dalla costruzione del quartiere espositivo
Weissenhof e poi dalla costituzione dei Ciam, i congressi internazionali di
architettura moderna.
Fu
allora che i tre capirono che avrebbero dovuto proporre una loro vulgata
dell’architettura moderna classicizzante ed equidistante sia
dall’espressionismo che dal rigido funzionalismo. Ci riuscirono anche grazie al
critico Siegfried Giedion che, più tardi, per lanciarli, non esitò a scomodare
la teoria dello spazio-tempo di Einstein. E che, come segretario dei Ciam,
esercitò un ruolo di rigido custode dell’ortodossia.
Il
prezzo fu la riduzione del Movimento Moderno a un canone intollerabile sia per
coloro che, come
Hugo Häring ed
Eric
Mendelsohn, puntavano a
un’architettura più vicina alle tensioni magmatiche della natura, sia per
coloro che, come
Karel Teige,
avrebbero desiderato un’architettura meno carica di preconcetti accademici,
cioè più legata ai fatti della vita e meno ai concetti metafisici di
proporzione e armonia.
A
lanciare definitivamente la mitologia del Bauhaus provvide l’America dove, dopo
l’ascesa di Hitler al potere, si trasferirono prima Gropius e poi Mies. Negli
States operava, infatti,
Philip Johnson che, oltre a essere un grande ammiratore dei due, era
anche il capo del dipartimento di architettura del neonato Museum of Modern Art
di New York. E attraverso il MoMA nascerà l’idea del Bauhaus come culla
dell’International Style, cioè del nuovo stile della modernità. Operazione
questa nefasta, perché trasformerà la complessità e contraddittorietà di un
movimento allo stato nascente in un canone stilistico non privo di
banalizzazioni e semplificazioni.
Con
un racconto ancora oggi tanto diffuso, nonostante le recenti e meno recenti
rivisitazioni storiografiche, che nelle facoltà di architettura gli studenti
sono invitati a venerare Gropius, Le Corbusier e Mies e un Bauhaus idealizzato,
mentre disconoscono l’ansia espressionista o il vero rigore funzionalista.
Eppure,
senza l’apporto a volte schizofrenico e congiunto di queste due componenti meno
riducibili a canoni accademici, la nostra cultura contemporanea, il design
moderno, e quindi anche il Bauhaus, forse non sarebbero mai esistiti.