L’architettura è costellata di ottimi progetti di piccole dimensioni, che spesso hanno la valenza di manifesti. Quelle che mostriamo possono invece equipararsi a dei “consigli per gli acquisti” per chi stesse cercando delle risposte fresh sul momento che la disciplina sta attraversando. Lette più approfonditamente, indicano alcune vie di fuga che l’architettura potrebbe seguire per uscire dalla crisi di contenuti e di immagine in cui s’è cacciata negli ultimi vent’anni.
Focus quindi su The Cube – ristorante itinerante che dopo Bruxelles è ora a Milano, concepito da Absolute Blue per Electrolux e progettato da Park Associati – e sulla risistemazione della Stazione Metro Holmenkollen ad Oslo (RRA arkitecten). Pur essendo architetture minime e minimaliste parlano linguaggi suadenti. Da ascoltare e da riutilizzare.
In primis il linguaggio del gioco che, sostiene Johan Huizinga nel suo Homo Ludens, sarebbe un fattore fondamentale, presente in ogni cultura, per una buona organizzazione sociale. Una lezione, questa, ripresa gioiosamente già dai Situazionisti e che i Park Associati hanno ben assimilato, tanto cheé The Cube scherza liberamente con i vari contesti urbani, cui la sua natura nomade e temporanea lo costringe, facendo cùcù in maniera scanzonata da dietro gli angoli più imprevisti delle città ove staziona.
Al contrario l’ampliamento della stazione di Holmenkollen fa una partita a nascondino con la città , utilizzando la vecchia stazione quasi fosse un cappello sotto cui celarsi alla vista.
Il secondo linguaggio espresso dai due progetti è invece quello dello straniamento,  che The Cube e Holmenkollen comunicano seguendo vie opposte – una si mostra l’altra si nasconde – riuscendo, in entrambi i casi, a disturbare la visione urbana standardizzata del cittadino, Sono, infatti, ottime architetture che “non ti aspetti” di trovare nel contesto ove insistono e generatrici di quel senso di sorpresa, sconcerto, meraviglia e curiosità che segue la scoperta di un cambiamento nel familiare profilo della nostra città .
Il terzo linguaggio che queste architetture diffondono e è quello che, stante l’appellativo, dovrebbe essere tra i più ascoltati dalle attuali e dalle prossime generazioni di architetti. Il Volume Zero. Con esse i progettisti hanno mostrato la possibilità , attraverso l’elevazione di edifici esistenti o il riuso dei loro contenitori, di non consumare ulteriore suolo per aumentare le superfici utili. E  ridurre così l’impronta a terra di quelli che potrebbero essere nuovi interventi architettonici urbani.
L’intenzione che vorrei qui sottolineare, non è però quella di fare l’apologia di una nuova “architettura parassita” e aprire scenari futuri fatti di città quali quelle di Blade Runner, il V° Elemento o Guerre Stellari o, peggio, di incentivare il riempimento dei tetti delle città storiche e le periferie di piccole scatole nate in ossequio al Piano Casa voluto dall’ex premier Berlusconi, ma più semplicemente far presente ad architetti, amministratori e legislatori – esclusi quelli dei comuni virtuosi che già si sono mossi in questa direzione – le possibilità di questa strategia di intervento così di valutarne, quanto e più possibile, i pro e i contro.
Di questo le due architetture sono paradigmatiche. Anche per la bravura che i loro progettisti hanno dimostrato nel surfare con leggerezza sulla cittĂ esistente e sulla sua storia sedimentata, grazie ai stratagemmi innestati nei loro progetti.
Quindi la prossima volta che uscite di casa, oltre ad aguzzare la vista, tendete le orecchie. Sopra i tetti, dentro qualche vecchio edificio o sotto di esso potreste, oltre che vedere, ascoltare un nuovo lessico. Per cui, buona ricerca!
di guido incerti
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 78. Te l’eri perso? Abbonati!